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    METTI UNA SERA A CENA TRE MESI DI CORONAVIRUS - QUIRINO CONTI: ‘’PIÙ O MENO BARDATI DI PATETICO GIOVANILISMO, TUTTI SI ERA CREDUTO DI POTER GODERE DI PRIMAVERE INNUMERABILI, IN UN PAESE DI VECCHI. MA I GIORNI SONO CONTATI E SCENDE UNA CAPPA DI MALINCONIA PER UNA STAGIONE CHE CI E’ STATA RUBATA PER SEMPRE – POLVERIZZATA LA GRANDE ILLUSIONE DI QUESTA MODERNITÀ: DI APPARTENERE TUTTI A UNA GIOVINEZZA PROTRATTA SENZA LIMITE…”


     
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    Quirino Conti - ph G Vigo Quirino Conti - ph G Vigo

    Quirino Conti per Dagospia

     

    Mai quel viale era apparso tanto livido e vuoto. E gli alberi più scheletriti, e le ombre più tormentate e cupe. Mancava solo il cigolio ciondolante di uno smorto lampione perché la scena fosse completa. Per un ciak sinistro.

     

    E invece era realtà: una delle molte notti di solitudine di questi ultimi giorni senza più vita. Eppure qua e là riluceva qualche terrazzo, come se il fermento dell’esistenza si fosse relegato in alto, tra giardini pensili e attici lugubremente fioriti; lasciando il fondo della città al suo vuoto disperato.

     

    vecchiaia vecchiaia

    In una di quelle serate, un minaccioso drone, senza neppure un ronzio, si mise a spiare uno svettante superattico che sembrava dare qualche segno di vitalità.

    Era una cena. Non la sola, invero, in quei giorni di solitudine obbligatoria. Ma qui c’era di più, a leggere quel che si diceva dalle labbra dei convitati.

     

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    Il tema era il Tempo e la Grande Illusione di questa Modernità: di appartenere tutti a una giovinezza protratta senza limite. In effetti, l’età media (benché negata in qualsiasi modo) consentiva di riflettere per lunga esperienza. Con il rammarico di una primavera – mai tanto radiosa – ormai sprecata per sempre e senza alcuna garanzia di ritorno.

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    Mentre, appunto, la Grande Illusione veniva polverizzata da un oscuro nemico che ingoiava le stagioni migliori senza lasciare più sogni e chimere.

     

    A quella tavola si diceva – o magari si pensava soltanto – che giorni preziosi erano stati loro sottratti, riprecipitando ognuno dentro la propria identità; quindi, che l’inganno di essere tutti seduttivi e seducenti, tutti, nessuno escluso, era ormai svelato; che la vita ora imponeva come dichiarata e senza più scampo la propria vecchiezza (quale che fosse), anche solo appena abbozzata.

     

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    Perché il mostro si stava nutrendo dei miraggi di ciascuno. Di quella Grande Illusione figlia degenere del business globale e di una ingorda finanza. Giacché, più o meno bardati di patetico giovanilismo, tutti si era creduto di poter godere di primavere innumerabili, in un paese di vecchi;

     

    di non differire in nulla da giovinezze dalla pelle realmente di pesca (una bellezza vera, la loro, senza sottotitoli), grazie a impalcature di ogni genere per tenere in piedi la più penosa delle menzogne.

     

    Cindy C Erwin Olaf Cindy C Erwin Olaf

    Mentre ora, a tavola, si era tutti nella propria generazione. Quella impietosa, che neppure il più frivolo camp che arredava gli ambienti circostanti riusciva a stemperare.

     

    Altra cosa si fosse investito in fondi oro senesi o in tavole umbre trecentesche. Allora sì, si sarebbe potuto essere anche gloriosamente antichi senza essere mai stati vecchi. Ma ora il gioco era scoperto: una primavera se ne stava andando portando con sé chissà quante altre stagioni piene di sole e di luce.

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    E la Moda? Non c’era più mezzo di tornare seduttivi, perché niente può restituirti i tuoi giorni quando il mostro ti ha costretto a svenderli.

     

    Ma ognuno tra sé e sé pensava di essere stato amato perché davvero desiderato: e qui era l’abissale inganno. Con lo Stile che aveva fatto salti mortali per facilitare la beffa; o almeno per lubrificarne il fervore.

     

    Ora non restava che gustare un buon dolce e concludere la cena; prima di ridiscendere tra le ombre. Perché lo spettacolo era terminato. Con ciascuno, che deposta la maschera, si costringeva a rientrare nei propri panni. Dolorosamente, maledicendo quel virus.

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