RUPERT EVERETT
Fulvia Caprara per "La Stampa"
Nell’ultima scena di uno dei suoi film più amati, Il matrimonio del mio migliore amico, ballava avvinto a Julia Roberts e la faceva sorridere con una battuta non casuale: «Mi chiamo Bond. Jane Bond».
Era il modo per lanciare un appello che Hollywood non ha mai raccolto e che, molto probabilmente, ha avuto un’influenza negativa sulla sua carriera: «Coltivavo l’idea di un agente segreto gay, ho anche iniziato una trattativa con la Sony che poi non è andata in porto nonostante, in quel momento, fossi all’apice del successo».
Ironico, elegante, profondamente british, Rupert Everett (classe 1959), protagonista al Taormina Film Festival di una pirotecnica masterclass, spiega che, almeno per una parte dell’industria cinematografica Usa, il «coming out» è tuttora un rischio, un boomerang che può limitare la crescita professionale di un artista:
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«Sulla presenza dei gay nei film le cose non sono molto cambiate, il business non è ancora pronto per parlarne apertamente e questo accade soprattutto nel mondo degli esercenti, dove c’è uno zoccolo duro di persone conservatrici, molto religiose e molto di destra. Gente che ha il potere di decidere l’uscita o meno di un film nelle sale».
Una rivincita tardiva
Se il progetto dello 007 omo franò nel nulla anche perchè coincise con «il ritorno al governo di Bush, che non ha mai incoraggiato una maggiore apertura mentale degli studios», adesso, scherza Everett, le cose vanno meglio, soprattutto in tv: «In televisione i ruoli gay si sprecano, e a Hollywood, oggi più che mai, vale la legge per cui se c’è una storia che può far guadagnare, la si fa punto e basta».
RUPERT EVERETT
Anzi, la cosa buffa, è che, negli ultimi tempi, «un sacco di attori etero vogliono fare gli omosessuali sullo schermo». Rivincita tardiva, che fa pensare ai tristi destini esistenziali di divi come Rock Hudson, morto di Aids senza mai poter rivelare al suo pubblico la propria omosessualità, come l’artista Liberace che ebbe una fine analoga, come Montgomery Clift, morto a 45 anni, dopo aver sofferto di una profonda forma depressiva dovuta alla dipendenza dall’alcool, ma anche all’obbligo di tenere segrete le proprie preferenze sessuali: «Per me oggi va meglio - ironizza Everett - e finalmente non mi chiedono più di interpretare ruoli di amante sexy».
Adesso può liberamente gioire per il sì alle nozze gay dei cittadini irlandesi: «È stato un risultato fantastico. Chi si sarebbe mai aspettato di vedere i francesi scendere in campo contro i matrimoni omosessuali e gli irlandesi approvarli a maggioranza?». E soprattutto dedicarsi al progetto cui lavora da 8 anni, il film dove racconterà Oscar Wilde dal suo personale punto di vista.
Rupert Everett prima e dopo la cura
Non solo icona glamour di fine ’800, famosa per traguardi artistici, battute dissacranti e vita dissoluta, ma anche vittima dei pregiudizi del tempo. Incarcerato causa omosessualità, accusato di plagio e oppresso dai debiti, Wilde finì i suoi giorni da emarginato:
«Ci fu un momento in cui fu venerato come se fosse Spielberg, poi tutto cambiò... beveva, fumava, diventò il più famoso vagabondo del secolo, povero, sdentato, evitato dai vecchi amici, amico delle prostitute». Ambientato in Francia, Inghilterra e Italia (soprattutto a Napoli), il film, titolo The happy Prince, avrà un cast d’eccezione con Emily Watson, Colin Firth, Miranda Richardson, Tom Wilkinson.
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