Michela Marzano per “la Repubblica”
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«Sono sicura che esista una parola per definirle. Wumben? Wimpund? Woomud?» Un paio di anni fa J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, aveva commentato così un articolo in cui si parlava dell'identità di genere. Secondo lei in Inghilterra, in nome della difesa delle persone trans, si stava progressivamente cancellando la nozione di sesso. Dopo essersi schierata accanto a una ricercatrice britannica che aveva affermato che «le donne trans non sono vere donne», Rowling aveva quindi deciso di unirsi alle battaglie delle Terf, le Transgender exclusionary radical feminists, ovvero quelle femministe che vogliono escludere dalla categoria "donne" tutte coloro che, biologicamente e geneticamente, non sono femmine.
michela marzano
«Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare», aveva scritto qualche mese dopo su Twitter. Subito prima di aggiungere: «Questa è la semplice verità». Ma di quale verità parla esattamente l'autrice di Harry Potter? Cosa significa, per lei, essere donna? Pensa davvero che il proprio essere donna coincida con il proprio sesso biologico?
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Sono ormai alcune settimane che, all'interno del partito laburista inglese, si discute per trovare una soluzione al dilemma del rapporto tra sesso e genere, non solo per differenziarsi dal tradizionalismo dei tories, ma anche per dare un segnale a coloro che, da sempre, si battono per i diritti e l'emancipazione di tutte e di tutti. E quando l'altro ieri Sir Keir Starmer, il leader dei laburisti, ha riconosciuto in radio che esisteva una «minoranza di donne che poteva avere il pene», la comunità Terf è ripartita all'attacco.
Anche se Starmer, nell'intervista, è stato fin troppo cauto e, dopo aver aperto la porta alle donne trans, ha immediatamente precisato che tutte le altre donne hanno comunque il diritto di sentirsi protette nei luoghi comuni, come bagni e palestre. E quindi? Esisterebbero donne di serie A e donne di serie B?
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Ormai sono anni che sembra di assistere sempre allo stesso dibattito, minato in partenza dall'enorme confusione che circonda le nozioni di sesso, genere, orientamento sessuale e identità. «Chi non ha vissuto la propria intera vita da donna non dovrebbe arrivare a definire noi donne», aveva scritto nel 2015 la femminista americana Elinor Burkett in un articolo pubblicato sul New York Times, subito prima di dire che le donne trans non potevano sapere cosa significasse essere donna, visto che loro non avevano mai dovuto affrontare l'inizio delle mestruazioni al centro di un vagone affollato della metropolitana né avevano mai vissuto l'umiliazione di scoprire che gli stipendi dei loro colleghi maschi erano ben più consistenti dei loro. Ma Burkett e le altre Terf, a loro volta, molto probabilmente non hanno la minima idea di cosa significhi crescere sentendosi prigionieri di un corpo che non corrisponde a ciò che si è.
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Quando parliamo delle donne trans, d'altronde, non parliamo affatto di «uomini che si credono donne », come afferma in maniera superficiale J.K. Rowling. L'identità di genere non è né una credenza né un capriccio né una sensazione fluttuante. L'identità di genere è la percezione precoce, profonda e duratura di sé come uomo o donna, ossia ciò che si inizia a percepire non appena si riflette sulla propria identità, qualcosa di estremamente radicato e, soprattutto, che non cambia con il passare del tempo. Percepirsi donna, allora, vuol dire non poter vivere diversamente, sebbene il proprio corpo dica altro.
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Per la maggior parte di noi, esiste una continuità tra il sesso e il genere. Chi nasce femmina è donna. Chi nasce maschio è uomo. E se una persona, invece, nasce femmina ma è uomo, oppure nasce maschio ma è donna? Cosa vogliamo fare? Impedire loro di essere ciò che sono? Costringere queste persone a vivere una vita inautentica? Per molto tempo, è quello che si è fatto; disinteressandosi al loro dolore, nonostante sia talvolta così grande da spingere alcune di loro al suicidio.
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Oggi, però, non è più possibile trincerarsi dietro l'idea secondo la quale alla base delle molteplici differenze che attraversano l'umanità ci sarebbe sempre e solo la differenza sessuale: quella differenza iscritta nel corpo; quella differenza che porta una femminista come Sylviane Agacinski a sostenere che la specificità della donna risiede sempre e comunque nella sua "capacità produttiva".
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Oggi, forse, è giunto il momento che la sinistra faccia un esame di coscienza e si riappropri delle parole della scrittrice statunitense Audre Lorde la quale, già alla fine degli anni Settanta, aveva capito che la complessità della realtà e le contraddizioni dell'esistenza necessitavano una lettura non semplicistica dell'identità di genere: «Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne gay non era abbastanza, eravamo diverse. Stare insieme alle donne nere non era abbastanza, eravamo diverse. Ognuna di noi aveva i suoi bisogni e i suoi obiettivi e tante diverse alleanze. C'è voluto un bel po' di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza».
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