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    MON DIEU, DEPARDIEU - “MIA NONNA PATERNA AVEVA UNA STORIA CON MIO NONNO MATERNO. QUANDO MIA MADRE SCOPRÌ CHE SUO PADRE SE LA FACEVA CON SUA SUOCERA, NON VOLEVA PIU' UN FIGLIO NATO DA UN SIMILE INTRECCIO E TENTÒ DI ABORTIRMI CON UN FERRO DA CALZA” – LE CONFESSIONI DELL’ATTORE A ALDO CAZZULLO – “DI MACRON DISSE CHE È COME IL BIANCO DELL'UOVO: NON SA DI NIENTE. DI LE PEN, CHE NON ERA UNA MINACCIA, MA UNA SCIOCCHEZZA” – LA BORDATA A STING FINITO “A FARE IL SANGIOVESE”


     
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    Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”

     

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    Avevo il sospirato appuntamento con Gérard Depardieu, atteso da anni; e non avevo una bottiglia di vino da portargli.

     

    Certo, l'appuntamento era alle 11 del mattino; ma questo non risolveva il problema.

    Non mi aveva forse raccontato Stefania Sandrelli che alle nove del mattino, sul set di Novecento, il giovane Gérard aveva già scolato una bottiglia di rosso? A giudicare dalla mole, con l'età non aveva cambiato abitudini. Mentre mi affrettavo verso Montparnasse sotto una fastidiosa pioggia primaverile, guardavo le vetrine delle enoteche chiedendomi quale vino avrei potuto portare, per ingraziarmi il personaggio dal carattere notoriamente difficile. Uno Chateau-Petrus era da escludere: troppo caro, e inadatto all'ora della giornata. Va bene l'appetito da orco del grande attore; ma mica si può aprire un bordeaux a mezza mattina. Meglio un vino più leggero. Pensai che un Saumur-Champigny, rosso molto alla moda a Parigi, sarebbe potuto andare. E quindi, un po' in ritardo, bagnato, ma provvisto di regalo, fui ammesso in casa.

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    Solo che Gérard Depardieu detestava il Saumur-Champigny, e in genere i vini leggeri, e comunque i vini alla moda.

    L'ora della giornata, precisò subito, non rappresentava un ostacolo: quando girava con Jean Gabin, mi disse con il celebre tono burbero, alle undici del mattino avevano già mangiato selvaggina e bevuto una bottiglia di rosso; nonostante il décalage di due ore rispetto ai tempi di Novecento, una prestazione notevole.

    Però, piuttosto di un vinello leggero, tanto valeva bere un succo di frutta.

    Inizio difficile. Depardieu di malumore, e succo di frutta.

    Mi appellai quindi alla vecchia regola. Quando devi intervistare una persona che non conosci, in una lingua che conosci ma comunque non è la tua, meglio cominciare dalle origini, dalla famiglia. Un po' tutti gli esseri umani parlano volentieri delle origini, della famiglia. Di solito si inizia dai nonni. Avevo letto che la nonna di Depardieu lavorava all'aeroporto di Parigi Orly. Da qui la prima domanda: sua nonna lavorava all'aeroporto di Parigi Orly, vero?

     

    Attimo di silenzio. Grugnito. «Sì, è vero. Ma detta così sembra che facesse la hostess. Invece faceva la dame-pipi». Prego? «Ha capito benissimo: la signora della pipì.

    GERARD DEPARDIEU CON IL PASSAPORTO RUSSO GERARD DEPARDIEU CON IL PASSAPORTO RUSSO

    E lo stipendio erano le monetine che le davano i passeggeri per aver pulito il bagno prima e dopo l'uso». Ma era pur sempre la nonna, una figura tenera... «Sì. Però aveva una storia con mio nonno».

     

    Be', certo, era la nonna...

    «Cos' ha capito? Mia nonna paterna aveva una storia con mio nonno materno. Quando mia madre scoprì che suo padre se la faceva con sua suocera, non voleva più un figlio nato da un simile intreccio mostruoso, e tentò di abortirmi con un ferro da calza».

     

    Non riuscì. Per fortuna, altrimenti non avremmo avuto Cyrano, Cristoforo Colombo, Danton, Tartufo, Vatel, il colonnello Chabert, Vidocq, Porthos (ma anche Mazzarino), Fouché, Jean Valjean, Rasputin, il conte di Montecristo, Strauss-Kahn - «sarebbe stato un buon presidente» -, financo Obelix, e ora Maigret. Insomma, l'attore più versatile di tutti i tempi. E poi, certo, anche l'Olmo di Novecento. Mi raccontò che aveva preteso di essere pagato come De Niro, che era già una star: «Quanto prende l'americano? Centoventi milioni di lire? Li voglio pure io». Altrimenti? «Altrimenti me ne vado».

     

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    Dal quartiere dov' era cresciuto, la sua famiglia era stata cacciata a calci. Lui faceva le vacanze a Orly, con la nonna, in una baracca in fondo alla pista di atterraggio: passava l'estate a guardare i viaggiatori di passaggio. Il padre vendeva L'Humanité, il quotidiano comunista, ma non lo leggeva: era analfabeta. Il Sessantotto Gérard lo fece da ladro: alleggeriva i contestatori di orologi e catenine. Fu arrestato per furto d'auto.

    «Non ho imparato niente, ho vissuto tutto. La mia scuola è stata la gendarmeria».

     

    Quella mattina piovosa eravamo alla vigilia del primo ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, quello del maggio 2017, e ovviamente volevo parlare di politica. Depardieu rispose che odiava la politica. Disse male di entrambi i candidati.

    Macron per lui era come il bianco dell'uovo: anche montato ad arte, non sa di niente.

    «La sua voce non mi arriva, non mi entra dentro. Non lo conosco e non lo capisco».

     

    Marine non era una minaccia, bensì una connerie: una sciocchezza cui avevano creduto i francesi, insoddisfatti del presente e nostalgici di un passato nazionalista impossibile da ritrovare nel mondo globale.

     

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    Insomma, pur odiandola, Dépardieu capiva la politica.

    Finì per parlarne a lungo, anche di Putin, di Sarkozy, di Chirac, di leader cui era considerato vicino, per poi concludere: «Non ho mai conosciuto un uomo di potere che fosse davvero onesto. Mai».

     

    L'unica soluzione era far eleggere dal popolo il presidente degli Stati Uniti d'Europa.

    In realtà era della Francia, non solo della politica, che si era costruito un'immagine nera, funebre, devastante.

     

    Non aveva il mito della Rivoluzione: Robespierre e Saint-Just per lui erano due criminali, le esecuzioni di Luigi XVI e di Maria Antonietta due crimini. Non aveva il mito di Napoleone, che aveva lastricato le vie del mondo di cadaveri. Non aveva ovviamente il mito del colonialismo francese, «un altro crimine». Ma non aveva neppure il mito del Generale De Gaulle: la borghesia che lo votava gli appariva classista e reazionaria. Lui aveva votato una sola volta in vita sua, nel 1981, per François Mitterrand; e non l'avrebbe fatto mai più.

     

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    Gli stavano sulle scatole pure Bernard-Henri Lévy e Tintin. Salvava solo Houellebecq, la sua amica Fanny Ardant e Barbara, di cui aveva portato le canzoni a teatro: «Si lasciò morire. Mi disse: il mio cuore non mi appartiene più. Meglio finire così che non come Sting, a fare il Sangiovese». Pensai dentro di me che per fortuna non gli avevo portato una bottiglia di Sangiovese. Per essere il francese più famoso del mondo, aveva insomma un'idea tragica della Francia, e pure della fama, «la palestra degli egocentrici».

     

    La Francia chiamata a scegliere tra Macron e Le Pen gli ricordava quella del 1940 che si era offerta a Hitler: «Abbiamo ricominciato a guardare il mondo e la storia da dietro le persiane chiuse». La libertà era scomparsa, l'uguaglianza pure; restava un po' di fraternità, perché secondo Depardieu l'uomo in fondo è buono. Qui nacque una lunga discussione, perché secondo me l'uomo non è buono né cattivo; è egoista, talora nella variante peggiorativa del narciso; ma può essere indotto al bene, se questo lo fa sentire migliore. Insomma andammo avanti a parlare, perdendo la cognizione del tempo, fino a quando fuori spiovve, e capimmo senza dircelo che era tempo di salutarci. La bottiglia di Saumur-Champigny era sempre lì, intonsa.

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    Non avevamo avuto bisogno del lubrificante del vino per confrontarci e in qualche modo incontrarci. Anni dopo lessi un articolo in cui si diceva che Depardieu adorava il Saumur-Champigny, ed era stato a trovare i vigneron che lo producevano. Dire il contrario era stato forse il suo modo di prendere un vantaggio nella conversazione, cui però aveva rinunciato quasi subito. Al momento dell'addio ci abbracciammo. Non l'ho mai più rivisto.

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