Nanni Delbecchi per “il Fatto Quotidiano”
nanni delbecchi
La metamorfosi di Roberto Benigni in Geppetto è il principale se non l'unico motivo per cui vale la pena di vedere il Pinocchio di Matteo Garrone. Grazie alla magia di Collodi, Benigni non fa più il Benigni, non essendolo più da un pezzo; abbandona il burattino che fu, "mette giudizio" e si incarna nel babbo di se stesso (destino comune). Quanto a Garrone, che ne Il racconto dei racconti aveva mostrato di conoscere il lato oscuro delle fiabe, di saper evocare il mondo incantato di Bettelheim, anche lui ha messo giudizio, fin troppo.
Le avventure di Pinocchio sono sottoposte a un'invisibile ma sistematica edulcorazione disneyana (per non dire amazzoniana); il Grillo Parlante non viene stecchito (dunque non può risorgere), del ciuchino Lucignolo non si sa più nulla, e quando Pinocchio si scopre "ragazzino come tutti gli altri", il burattino senza vita è rottamato senza rimpianti, roba che nemmeno Renzi con D' Alema.
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Eppure, il pubblicista mazziniano Carlo Lorenzini parteggia apertamente per il burattino ribelle, mentre "il ragazzino perbene" assomiglia al piccolo borghese da lui tanto spesso irriso, come ha dimostrato Daniela Marcheschi nel suo saggio Il naso corto. E poi, "mettere giudizio" significa anche dire addio al mondo incantato, lasciare la fantasia fuori dalla porta. Nasce da qui la misteriosa malinconia di cui è soffuso il finale. Altrimenti, altro che Zalone: ci tocca avere pure un Pinocchio politicamente corretto, una favola perbene "come tutte le altre".
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