Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport
ancelotti de laurentiis
Carlo Ancelotti: cosa è il calcio nella vita di questo Paese? E' una speranza? E' un diversivo? E' un gioco?
ancelotti
«Dovrebbe essere un gioco. E' nato così, così è vissuto dai bambini. Ma per questo Paese il calcio non è tanto un gioco, quanto un diversivo. A Napoli rappresenta anche una rivalsa, una sorta di riscatto dal senso di abbandono che questa città ha legittimamente introiettato nei secoli. Per me rimane un gioco. Bello, emozionante. Ancora mi diverto, ancora lo faccio con passione. Sento tanta gente del calcio dire che non riesce a dormire per la pressione. Io dormo sempre».
Infatti lei trasmette da sempre questa idea di serenità. Vedo tanti suoi colleghi che invece sono dominati dallo stress
«Sì, quello dipende dal mio carattere. E il carattere non è solo Dna. E' la somma dell' indole e delle esperienze della vita. E' un fatto storico, si potrebbe dire. Il mio papà era molto tranquillo, era un contadino, sapeva dominare le conseguenze delle gelate sul raccolto e io sono cresciuto guardando il suo rapporto con la terra, le stagioni, gli animali.
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E già lì Dna ed esperienza si fondevano Il mio primo allenatore è stato Liedholm, tutto l' opposto dello stress. Una volta al Flaminio i tifosi della Lazio ci hanno ammazzato di botte, ci tiravano le pigne sul pullman. Noi eravamo per terra sanguinanti, lui è salito sul pullman e ha detto: "Ragazzi tutto bene? Cosa succede?". Io da lui ho imparato uno dei sentimenti più difficili da conoscere e conservare, la serenità».
Ai giocatori bisogna trasmettere stress o serenità?
«Dipende da quello che leggi in loro. Credo che ai giocatori vada trasmessa soprattutto convinzione, fiducia. No, stress no. Però qualche volta devi stimolarli dal punto di vista dell' attenzione, della concentrazione, della fiducia».
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E quanto bisogna arrabbiarsi quando la squadra gioca male?
Quale è la misura del rimprovero che si fa ad una squadra?
«Ci sono due tipi di arrabbiature. C' è quella che viene dalla testa, quindi controllata, e quella che viene dal cuore, dall' emozione. L' arrabbiatura che fa più effetto è sicuramente quella che viene dall' emozione, quella che non è controllabile. A volte più che arrabbiatura è fermezza».
Quanto conta l' intelligenza in un giocatore?
«Tantissimo. E' la cosa più importante, nel calcio come nella vita. Il talento non è sufficiente. Forse una volta bastava per rimanere ad alti livelli. Ora se non è supportato dall' intelligenza - che si può chiamare professionalità, serietà, applicazione - non fa più la differenza».
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Il fisico quanto conta nel calcio moderno? Conta più dell' intelligenza e della tecnica calcistica?
«No, la cosa più importante è l' intelligenza. Dopo, naturalmente, c' è la genetica, che è il talento e anche il fisico. E' una combinazione. Alla stazza non do molta importanza. I giocatori lenti, per esempio, continuano a giocare a calcio, perché a calcio possono giocare tutti. Il giocatore lento, quello veloce, il giocatore basso, il giocatore alto. E' lo sport di tutti.L' aspetto fisico, nella mia idea di calcio, ancora non ha la predominanza sull' intelligenza tecnica e tattica».
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Sì, infatti lei ha Mertens, Insigne e ha avuto Verratti che certo non sono dei corazzieri.
«Più dell' intelligenza conta la personalità. Puoi giocare ad alto livello solo se hai una forte personalità. Come Modric che, fisicamente, anche lui è un po' esile. Avere personalità significa non spaventarsi davanti alle partite importanti. Ci sono tanti giocatori dei quali si dice "questo giocatore nelle partite importanti sparisce". Quello è un difetto di personalità».
Le è capitato di averne di giocatori con questo difetto?
«Sì. Come capita di trovare un giocatore di ventuno anni che non si spaventa davanti a niente. Anche se non è dotato di un grandissimo talento. Giocatori coraggiosi. Buffon è un coraggioso incosciente, nel senso buono della parola».
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La prima cosa che dice alla squadra quando arriva in una nuova società?
«Le racconto cosa ho fatto la prima volta che sono venuto qui. Ho parlato con la società, ho cercato di capire i loro progetti. La squadra già la conoscevo e mi piaceva. Dopo, piano piano, ho iniziato il processo senza stravolgere quello che già facevano molto bene con Sarri. Il Napoli è una squadra che ha conoscenza, per tre anni ha fatto un determinato e rigoroso lavoro e questo bagaglio si riconosce molto bene a livello di sapienza tattica: i ragazzi sono molto bravi. Dopo, piano piano, cerchiamo insieme di modificare il sistema di gioco.
Naturalmente con la condivisione dei giocatori. Non faccio mai una cosa se i giocatori non sono convinti di farla. Mi diceva Sacchi che ci sono due modi di convincere le persone: per persuasione o per percussione. Io preferisco la persuasione. Però magari anche l' altro sistema è efficace». Lei pensa sia immaginabile, per esempio qui a Napoli, un' idea del manager che resta per diversi anni come è per esempio nel calcio inglese?
«Mi piacerebbe molto. Forse qui ci sono le caratteristiche adatte a un progetto simile».
Che cosa ha Napoli che le piace? A uno come lei che viene dalla Bassa?
«Strano eh?».
Però interessante
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«Di Napoli mi piacciono tante cose. Ovviamente il paesaggio e la luce. Il golfo di Napoli, con Capri di fronte. Il Vesuvio: ti svegli la mattina e hai questa fotografia emozionante davanti. Poi che ha Napoli? La gente è molto disponibile. Il napoletano non si prende troppo sul serio. E' gente allegra, disponibile, aperta. Mi piace poi la passione che c' è dietro questa squadra. Passione e rispetto. Tutti pensano che Napoli sia sempre un grande, esuberante, putiferio. A me piace frequentare la città, vado per strada, nei ristoranti e nessuno mi ha mai disturbato, sono molto rispettosi. Forse perché mi vedono un po' vecchio».
E invece della sua nebbia ha nostalgia? La sente nelle sue radici?
«Sì, io sono del nord ma mi trovo bene al sud. La nebbia sono i ricordi della mia infanzia che rimangono indelebili. Sono così per come sono cresciuto».
Bernardo Bertolucci è stato figlio di quella parte d' Italia
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«Ha fatto un film favoloso che racconta la fatica e la storia della mia terra: "Novecento"».
Che cosa ha di poetico quella terra?
«Di poetico non lo so. In fondo d' estate ci sono le zanzare e d' inverno la nebbia, anche se adesso è un po' sparita».
Però c' è quella civiltà contadina di cui si sente ancora l' impronta..
«Quel modo di vivere è ancora molto radicato ed è figlio della tradizione agricola. L' aiuto reciproco. Mio papà, quando doveva raccogliere l' uva, poteva contare sull' aiuto di tutti gli altri vicini. E quando erano gli altri a raccogliere, mio padre li aiutava. C' era una solidarietà del vivere, un aiuto reciproco e costante. Anche adesso mia sorella, per fare i cappelletti, si riunisce in congregazioni. Si ritrovano quattro, cinque cuoche e fanno chili e chili di cappelletti. Questo è rimasto ancora. Una cooperativa del vivere. Le cooperative sono nate lì o no?».
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Quale le sembra in questo momento il difetto principale dell' Italia?
«Il difetto principale dell' Italia è il senso civico. Stiamo depauperando un patrimonio immenso di bellezza e di storia. Una volta ho ascoltato Farinetti che diceva "Abbiamo avuto il culo di essere nati in Italia". La penso anch' io così, ma questa fortuna va difesa con fermezza, intelligenza, amore».
A proposito di senso civico, lei ha detto che se negli stadi continueranno gli slogan contro Napoli, che poi sono urla razziste, lei chiederà che la partita si fermi.
«Io non voglio fare un discorso solo sul Napoli, ovviamente. Voglio parlare degli stadi italiani e della lotta contro ogni intolleranza. Una cosa sono i cori e gli striscioni divertenti, altro le manifestazioni di odio e la demonizzazione di città, colori della pelle, appartenenze etniche o religiose.
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E' un malcostume che deve finire. Credo che anche il presidente della Federazione sia sensibile a questo, gli arbitri sono sensibili, ci sono delle regole che gli organi competenti devono far rispettare. Se ci sono quei cori si devono attuare delle procedure: la segnalazione del capitano all' arbitro, l' annuncio con gli altoparlanti e, se nulla serve, la sospensione della partita. Serve far capire che si fa sul serio, che non si finge di essere sordi».
Degli insulti che Koulibaly prende regolarmente in tutti gli stadi cosa pensa?
«E' uguale, devono fermare le partite».
Koulibaly una volta mi ha detto «Io sono napoletano». Anche lei si sente un po' così?
«Sì. Mi piace l' atmosfera che si vive qui, l' ambiente. Napoli accoglie, non respinge».
Dove può arrivare questo Napoli quest' anno?
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«Non lo sappiamo, secondo me questa squadra ha tante potenzialità e lo ha dimostrato nel girone di Champions, che era difficilissimo. Siamo cresciuti molto in personalità, convinzione, perché queste partite aiutano a crescere. Siamo una squadra che non può giocare a basso ritmo. Per riuscire dobbiamo lavorare sempre a ritmo alto».
Il Napoli ha il miglior centrocampo che ci sia in Italia. E' così?
«Ne sono convinto. Allan, Fabiàn Ruiz, Hamsik, Diawara, Zielinski, Ounas. Sei centrocampisti di alto livello. Nella completezza siamo molto competitivi».
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Non le manca un attaccante robusto?
«Dipende da come vuoi giocare. Noi non sfruttiamo molto i cross quindi cerchiamo di utilizzare più il gioco verticale e devo dire che la combinazione, fino ad ora, ha funzionato: siamo il secondo miglior attacco d' Italia dopo la Juve, due gol di differenza».
Koulibaly è il miglior difensore del mondo in questo momento?
«E' uno dei migliori. Con Sergio Ramos, Varane. E con quelli della Juve che sono molto forti, più che come individualità, come coppia».
La Juve è inarrivabile quest' anno?
«No, la Juve è molto forte, molto continua, però inarrivabile no. Nella mia esperienza di calcio non ho ancora trovato squadre imbattibili. Certo, per stare al passo con la Juve, devi fare miracoli».
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La sconfitta a Perugia con la Juve nel 2000 cosa è stata per lei, professionalmente e umanamente?
«Un colpo duro. Soprattutto perché poteva essere la prima vittoria e invece da lì è iniziata l' etichetta di eterno secondo».
Che poi lei fatto presto a smentire, ha vinto ogni cosa ovunque
«La Juve mi poteva dare questa possibilità e invece, di essere uno capace di vincere, l' ho dimostrato proprio contro la Juve a Manchester. Lei, anzi tu, perché sei juventino?».
Sivori e Charles. Da bambino, nella prima partita che vidi c' erano loro, e persi la testa.
«Io sono diventato interista perché mio cugino, che era andato a lavorare a Milano dal paese, mi aveva portato la maglia dell' Inter quando avevo sei anni».
Quando eravamo ragazzi in effetti l' Inter era uno squadrone.
«La prima volta che ho visto l' Inter era il 1970, vennero a giocare a Mantova e mio papà mi portò ma non abbiamo trovato il biglietto. Mi disse "Torniamo a casa" e io "Ma che torniamo a casa! Stiamo qua". Mi sono messo davanti ad una porta dello stadio e ho cominciato a piangere a dirotto. Avevo undici anni e alla fine del primo tempo un custode mi ha detto "Se smetti ti faccio entrare". In quella partita l' Inter vinse 6 a 1.
Primo tempo 0 a 0. Mi sono visto tutti i gol. Mio papà mi aspettava fuori».
L' allenatore da cui hai imparato di più è stato Liedholm?
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«Sacchi ha innovato non solo il gioco, portando il pressing, ma soprattutto l' organizzazione, la metodologia del lavoro».
Però non riesco ad immaginare due persone più diverse. Sacchi è un fascio di nervi e tu invece trasmetti serenità, qualcosa tra il buddhismo e i girasoli della Bassa. Sacchi ad un certo punto ha smesso, non reggeva lo stress...
«Secondo te cosa è lo stress?». Credo su di voi la pressione mediatica. La soffri molto?
«Lo stress, se gestito, è una risorsa. C' è la partita che sento di più e quella che sento di meno. Quella che sento di più è la partita che mi dà sicuramente più stress, ma è anche la partita che mi fa pensare di più. Lo stress ci deve essere. Va gestito e controllato. Un allenatore deve anche avere la possibilità di staccare, di pensare ad altro.
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Non puoi dedicare ventiquattro ore del tuo tempo alla partita, ti devi prendere il tuo tempo. Io me lo prendo. Sto qui otto, dieci ore perché mi piace, ma quando vado a casa non è che sto a rimuginare sulle tattiche. Se c' è una bella partita, me la guardo. Mi dà piacere, non mi stressa certo. Come guardare un film» .
Dove sei andato hai lasciato un buon segno. Oltre a tante vittorie.
«L' unica esperienza amara è stata il Bayern. E' stato un scontro di filosofie. La società non aveva intenzione di modificare la struttura, la loro filosofia di lavoro e di promuovere un cambio generazionale dei giocatori, cosa che ora stanno facendo».
In un futuro lontano ti immagini allenatore della Nazionale?
«Oggi no. Ho avuto la possibilità mesi orsono, ho parlato anche con la Figc. Ma ho detto loro che avevo voglia di allenare una squadra di club. A me piace stare qui tutti i giorni. Non mi piace allenare tre volte al mese» .
Ricordi la tua prima partita all' Olimpico?
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«Era il '79. Liedholm, appena arrivato, mi fa giocare. Dopo un minuto Bruno Conti va al cross da sinistra, mette la palla sul secondo palo, io sono dentro l' area, Pruzzo la schiaccia. Albertosi la para e la mette lì, ad un metro da me. Mi sono detto "Adesso faccio gol". Era un minuto che giocavo. Ho pensato, lucidamente: "Vado sotto la curva, mi tolgo la maglietta e mi butto per terra". Tiro in porta e Albertosi, nel tirarsi su, la prende con la testa e la butta fuori. Quella partita è finita 0 a 0. Una vergogna» .
Ricordi un episodio di Liedholm?
«Una volta eravamo in ritiro a Brunico e un tifoso la mattina, con attitudine da delatore, spiffera indignato al mister che c' erano stati giocatori al bar fino all' una di notte. Lui lo guarda e dice: "Strano, ho detto a tutti di rientrare alle due!"».
AURELIO DE LAURENTIIS CARLO ANCELOTTI A CAPRI IN BARCA CARLO ANCELOTTI AI MICROFONI DI SKY
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