Aurelio Picca per “Robinson - la Repubblica”
AURELIO PICCA
Mio nonno giocava a carte col cappello. Silenzio assoluto. Chi infrangeva il rito poteva beccarsi una coltellata. Non sto parlando del Seicento caravaggesco, né delle osterie dove si giocava senza un soldo in tasca e né della plebe papalina e belliana. Lui era nato nel 1907. È roba di ieri.
Mio zio Armando, invece, deportato nei campi nazisti, quando rivide la luce di casa non smise più di giocare a Mediatore e a Sestiglio. Giochi di testa. Di testa lucida e complicata.
Armando stava con le carte incollate tra le dita per dodici ore al giorno. In famiglia gli affidarono i denari per andare a comprare la farina e lo misero sul treno, pregandolo di tornare presto. Si rivide dopo tre giorni senza farina né quattrini: li aveva scialacquati a Tressette.
GIOCARE A CARTE
Gli italiani, prima e dopo il boom (la uso ma odio la parola), non giocavano a tennis. Si scalmanavano per il calcio, per il pugilato, per il ciclismo; e giocavano a carte. Ogni bar aveva una saletta fumosa e maleodorante nella quale molti passavano i giorni della vita. In realtà, mi si perdoni i rafforzativi di senso: il tennis era e è uno sport per narcisi; il calcio appartiene alla squadra e dunque al collettivo e quindi in una partita accade tutta la vita di un uomo in novanta minuti: noia, esaltazione, gioia, delusione. Eccetto la morte. Anche il gioco del biliardo miniaturizza l'intera esistenza. Ma il giocatore con la stecca, non combatte contro l' avversario bensì con il panno verde e le biglie.
È un piccolo eroe che si scontra con il proprio destino. Il ciclista appare simile al giocatore di biliardo, invece egli è un sognatore. Crede unicamente nel dovere di pedalare, di raggiungere e scavalcare le Cime. La vittoria, semmai arriva, sembra essere marginale rispetto al combattimento che ha affrontato fra sé e sé in sella.
GIOCARE A CARTE
Il gioco delle carte, presuppone due divinità: abilità e fortuna. Non a caso era il gioco che piaceva a Machiavelli quando rifletteva sul Principe. E se un giocatore non possiede l'una né l' altra è destinato alla sconfitta. Ecco, solo nel gioco delle carte c' è rovina e morte. Mio nonno e mio zio, furono due eccezioni: erano sfortunatissimi ma di una abilità geniale. Vincevano sugli errori degli avversari.
Nato da una famiglia di giocatori di carte incalliti, ho sempre detestato il gioco in genere. Non solo quello delle carte. Capitò che da ragazzo mi ritrovai solo a Courmayeur. Una coppia di miliardari milanesi, dediti alla roulette e assidui frequentatori di casinò, adottandomi, in quella estate, mi raccontarono che per un intero mese a Saint-Vincent fecero solo il tratto Albergo-Sale da gioco passando per il tunnel.
aurelio picca
Una sera mi invitarono al Casinò di Chamonix, regalandomi quattro milioni di fiches. Le puntai in mucchietti di due e tre allo scopo di disfarmene al più presto. "Scommettevo" sul mio numero di nascita: il 17. Ero talmente impaziente che prima che la pallina si arrestasse nel vortice della roulette, avanzavo un altro mucchietto. Mi sgridò perfino il croupier. Però il desiderio di buttare via tutto era irrefrenabile: gioco, fiches, roulette E così accadde. Ma è a Natale che il Bambino Gesù, a partire da una certa ora, non è chiamato neppure a fare l' arbitro.
A sette anni mi mettevano le carte in mano per giocare a l'Asino. Le percepivo come cinque pezzi di ferro arroventati. Le briscole erano colonne d' Ercole. Bisognava "rispondere" alla carta superiore; bisognava "ammazzare" con le briscole; e fare "scalpo" quando si aveva in mano l' asso. Se sbagliavo le giocate (perché le sbagliavo), rischiavo il linciaggio come se il gioco avessi dovuto averlo impresso nel Dna. Non esisteva la Pietà, la Misericordia. La legge era la ferocia pagana, il rito tribale. Pregavo perché tutto finisse.
Con gli anni, quelle salette spoglie e puzzolenti dei bar, si sono trasformate in bische. Oltre al proliferare delle bische clandestine. E in un vortice di corsa sfrenata verso la Fortuna, si è centuplicato il gioco del Lotto, del SuperEnalotto, del Gratta e Vinci; e poi il mercato delle slot Machine e online. Il gioco si è fatto patologico. Bisognerebbe scrivere un saggio (io ne ho scritto un romanzo) intitolato: Patologia di una Nazione. Però la bisca delle bische, che dura dalla vigilia di Natale e termina nella notte della Befana, avviene in casa. Dentro le case degli italiani.
GIOCARE A CARTE
Conosco storie di chi a poker ha perso case e terreni e svuotato conti correnti. E distrutto famiglie. È inutile recuperare gli aneddoti: c' è una sterminata documentazione televisiva, cinematografica e tonnellate di carta straccia che narrano le gesta di vincitori e vinti; di storditi di gioia e abbrutiti.
In certe case, "ovvio", si usa la gentilezza del burraco e della canasta, se non del bridge. Ma nelle case di Natale ghettizzate dal gioco tosto, trasformate in covi fumanti, l' antico gioco del Sestiglio o del Mediatore fa posto al Piatto, appunto al poker sempre verde coi suoi cuori Come il Caffè Borghetti e il Long John hanno lasciato il posto al rum e alla grappa. Ormai il gioco delle carte è una epidemia a cui nessun vaccino può porre rimedio.
E a Natale è il risorto virus della spagnola. Comunque il gioco del Male è quello afrodisiaco, orgiastico, arrapante, privo di scrupoli.
Non ha confini morali. È il gioco delle carte che ammazza Paperone e Lsd, facendoti dondolare sull' altalena del sogno della ricchezza. Si chiama Bestia. Proprio come il Demonio. Dante, la Bestia, cioè Lucifero, lo sprofonda nella voragine che si legge nel Canto XXXIV dell' Inferno. Egli ha tre facce e tre ali, proprio come il gioco delle carte di Natale chiamato Bestia. Dove il mazziere distribuisce tre carte a testa.