Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera
MARIO MORI
Nonostante le 2.971 pagine impiegate per motivare la sentenza con cui quasi un anno fa, a settembre 2021, la corte d'assise d'appello di Palermo ha assolto gli ex carabinieri del Ros imputati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia (condannati in primo grado), il verdetto è racchiuso in poche righe.
Dopo aver ricostruito in ogni dettaglio i contatti dell'allora colonnello Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, sotto l'egida del generale Antonio Subranni, con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino al tempo delle stragi di mafia del biennio 1992-1993, i giudici scrivono: «Sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un'operazione di intelligence , essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo "politico" con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l'escalation mafiosa; al contrario, l'obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all'interno di Cosa Nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti».
SCALFARO
«Interessi convergenti» Per i giudici si trattò di «una sorta di ibrida alleanza da stringersi senza necessità di stipulare alcun patto, ma solo in ragione di un'obiettiva convergenza di interessi con la componente più moderata di Cosa Nostra».
Ragionamento forse complesso, ma sufficiente chiaro: la trattativa avviata con Ciancimino «non costituisce reato» perché l'intenzione non era di rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato, bensì di evitare altre stragi. Punto.
Il reato l'hanno commesso i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà (insieme agli altri mafiosi morti o pentiti) che volevano ricattare i governi in carica a suon di bombe. Non invece Marcello Dell'Utri, presunto intermediario della minaccia al governo Berlusconi nel 1994, perché «non vi è prova che vi sia stata un'interlocuzione con Silvio Berlusconi su questa tematica, dovendosi al riguardo ribadire la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al governo della Repubblica».
mario mori
«Iniziativa improvvida» Anche le più recenti dichiarazioni del boss stragista Giuseppe Graviano su presunti rapporti con l'ex premier fondatore di Forza Italia sono «di dubbia valenza», poiché rese da un «soggetto enigmatico» che «non ha intrapreso alcun percorso di collaborazione né ha fornito corretti segni di dissociazione».
Quanto alle revoche del «carcere duro» decise nel '93 dall'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, miravano anch' esse a dividere Cosa nostra, ma i giudici sottolineano che fu «ingeneroso e fuorviante», nonché «frutto di un errore di sintassi giuridica», insinuare cedimenti alla mafia da parte dell'ex ministro e dell'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, come fecero i loro colleghi di primo grado.
Detto questo, la sentenza è infarcita di giudizi molto duri sull'azione dei carabinieri imputati: «Un'iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti alloro ufficio e ai loro compiti istituzionali».
Taciuta «senza alcuna valida ragione» persino a Paolo Borsellino negli incontri avvenuti tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio che peraltro, secondo i nuovi giudici, non subì alcuna accelerazione nella sua esecuzione; e tantomeno perché Borsellino fu informato (da altri) della trattativa tra il Ros e Ciancimino.
berlusconi dell'utri
Il dialogo a distanza innescato da carabinieri mirava all'arresto di Totò Riina, poi avvenuto a gennaio 1993, perché era lui a guidare l'ala stragista di Cosa nostra; lasciando così spazio all'altra componente guidata da Bernardo Provenzano: un boss disponibile a privilegiare «la ricerca di complicità e connivenze per un più proficuo esito dei propri affari, aliene o poco inclini ad una linea di contrapposizione violenta».
«Ragioni indicibili» Una sorta di ritorno alle origini, in modo che tra lo Stato e Cosa nostra si ricostituisse «un clima di non belligeranza, o di conflittualità sostenibile». Proprio per allontanare nuove «pulsioni stragiste» i Ros scelsero di «preservare la libertà» dell'altro capo corleonese, rimasto latitante fino alla cattura 2006 per mano della polizia: «V' erano indicibili ragioni di "interesse nazionale" a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l'egemonia di Provenzano e della sua strategia dell'invisibilità o della "sommersione".
riina provenzano
Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso». Manca però la prova «che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano» per la consegna di Riina in cambio della mancata perquisizione del covo, «dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d'ogni traccia». Tuttavia quella vicenda rimane una ulteriore iniziativa del Ros che «desta profonde perplessità mai chiarite».