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    SENTI ST’OLIVE, SO ASCOLANE! - NON C’È BANCHETTO, BUFFET ELETTORALE, APERITIVO TRA AMICI O SERATA IN PIZZERIA CHE SI RISPETTI SENZA UN BEL PIATTONE DI OLIVE ALL’ASCOLANA, MA LA MAGGIOR PARTE DELLE PERSONE PROBABILMENTE NON NE HA MAI MANGIATA UNA AUTENTICA – PER ESSERE CONSIDERATE TALI, SERVONO LE OLIVE ASCOLANE DEL PICENO, CHE SONO PROTETTE DAL MARCHIO DOP – I FRUTTI DELL’ULIVO DI QUESTA ZONA FURONO SALVATE DALLA INVASIONI BARBARICHE NEL MEDIOEVO GRAZIE ALLA SALAMOIA DEI BENEDETTINI…


     
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    Morello Pecchioli per “la Verità”

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    I seggi non sono ancora aperti, ma c'è già una vincitrice: l'oliva all'ascolana. La deliziosa oliva farcita di tenera carne macinata, impanata e fritta si conferma un goloso richiamo elettorale. Lo hanno capito bene quei candidati che, in campagna elettorale, hanno preso i cittadini votanti per la gola. Promesse e programmi vanno bene, dovrebbero essere la spina dorsale di chi aspira alla poltrona di Camera e Senato, ma un ricco buffet è una potente calamita per attirare le simpatie degli elettori. E l'oliva all'ascolana è la regina del buffet.

     

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    Non solo di quello elettorale, ma di qualsiasi altro rinfresco: dal ricevimento radical chic all'aperitivo letterario; dal self service di una inaugurazione alla goliardica festa di laurea; dal buffet di una vernice d'arte al bancone di un elegante bar che propone stuzzichini da accompagnare con spritz o bollicine all'ora dell'aperitivo. Chi proprio non può fare a meno di barbarismi ha il permesso di chiamarli finger food e happy hour.

     

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    Le olive all'ascolana sono come le ciliegie: una tira l'altra. Chi ne assaggia una apre la via a parecchie altre sue sorelle. Alzi la mano chi, davanti ad un vassoio di croccanti, dorate, saporite olive all'ascolana, non è caduto e ricaduto nella tentazione di allungare la mano sulle auree polpettine. Posso resistere a tutto, diceva Oscar Wilde, tranne che alle tentazioni. Lo stesso noi. 

     

    Alzi la mano anche chi, alla presentazione di un libro o di una mostra, s' è messo in tasca la cultura per poter sgomitare meglio cercando un pertugio nel muro di schiene piantate davanti al buffet. L'importante è arrivare in tempo alle olive prima che la solita irriducibile signora di taglia forte non le arpioni una a una con aria indifferente lasciando vuoto il vassoio.

     

    Assodato che le olive ascolane piacciono a tutti, rendiamo loro giustizia anche se qualcuno ci resterà male: almeno il 90% delle olive all'ascolana che si gustano nei bar, nei ristoranti, sulle mense apparecchiate dai vari catering non hanno mai veduto Ascoli, né il Piceno. Sono olive fritte ripiene. Gustose fin che si vuole, ma solo e soltanto generiche olive fritte ripiene. Sono copie dell'originale. L'«oliva tenera ascolana» è tutta un'altra cosa. 

     

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    Prima di tutto, è un prodotto gastronomico che le ricerche degli studiosi della gastronomia picena fanno risalire alla cucina borghese dell'Ottocento. Altri tirano in ballo la cucina rinascimentale e papa Sisto V. Il pontefice ascolano (era nato a Grottammare) era sì ghiotto delle olive della sua terra, ma di quelle in salamoia.

     

    Secondo Benedetto Marini, giornalista e storico locale che sull'argomento fece approfondite ricerche, l'oliva all'ascolana ripiena e fritta nasce nell'Ottocento quando le famiglie ricche si trovarono nella necessità di consumare la sovrabbondanza di carne: conservarla tutta non era possibile e lo spreco era inammissibile. Fu così che i cuochi a servizio dei ricchi inventarono la carne come ripieno e l'oliva come sapido contenitore.

     

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    Dai cuochi alle madri di famiglia il passo fu breve. Ancora gli studiosi di gastronomia assicurano che la ricetta - la sapiente salamoia, la preziosa farcitura, l'impanatura di farina e uova e la frittura che riveste le olive di una croccante doratura - sia stata tramandata di madre picena in figlia picena dall'Ottocento. Con un segreto. Ogni famiglia aveva il suo. Ancora adesso, garantiscono nella città delle cento torri, ogni donna capace di preparare la specialità del territorio, nasconde quel segreto nella pancia dell'oliva. Sia le olive in salamoia sia quelle farcite e fritte vantano il riconoscimento europeo della Denominazione d'origine protetta, Dop (dal novembre 2005). Un Consorzio tutela l'oliva ascolana del Piceno, cultivar già conosciuta in epoca romana.

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    Grazie alla Dop nessuna azienda italiana o estera può produrre e vendere olive non picene definendole «ascolane». Rischia l'accusa di truffa alimentare e il sequestro del corpo del reato da parte del Nucleo repressione frodi e dal Corpo forestale che già in passato si è distinto nel debellare maxi truffe alimentari. Il disciplinare di produzione dell'oliva ascolana del Piceno, nel paragrafo relativo alle notizie storiche, dice che i latini conoscevano le olive provenienti dai territori originari di Ascoli e di Teramo come ulivae picenae. 

     

    Catone sottolinea la loro bontà nel De Rustica e consiglia il modo migliore per conservarle: «Prima che diventino nere (Antequam nigrae fiant...) si pestino e si mettano a bagno nell'acqua. L'acqua va cambiata spesso. Poi, quando saranno macerate bastantemente (Deinde, ubi satis maceratae erunt), si scolino, si premano e si mettano in aceto, aggiungendo olio e sale. Si conservino in aceto, finocchio e lentisco. Quando se ne desidera si prendano con le mani pulite». Non è forse la ricetta della salamoia?

     

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    Publio Valerio Marziale testimonia quanto fossero apprezzate sui triclini dei patrizi romani. Lo ribadisce Gaio Petronio nel Satyricon: le olive picene in salamoia non mancavano mai sulla tavola di Trimalcione. Con le testimonianze di tali personaggi non c'è da andar fieri? No. Gli orgogliosi discendenti degli antichi Piceni puntualizzano che, ben prima delle conquiste di Roma, «Ascoli era Ascoli, Roma era pascoli». Finita la civiltà dei Cesari, aggredita dalle orde barbariche, anche quella della tavola declinò inesorabilmente. 

     

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    Non gradite dai rozzi gusti di Visigoti, Vandali, Unni, le ghiotte eredità di Lucullo e di Apicio, finirono disperse e anche l'oliva tenera ascolana rischiò di perdersi nei tempi bui dell'alto Medioevo. Furono i monaci benedettini a salvare la coltivazione varietale picena, così come furono salvati nei monasteri tanti capolavori del pensiero classico. L'olivo fu potato, curato e mantenuto rigoglioso dai religiosi contadini (ora et labora) e anche i segreti della concia in salamoia furono tramandati dai monaci cucinieri. 

     

    L'aurea pallina impanata è protagonista del tradizionale fritto all'ascolana, un misto di verdurine e carne d'agnello. Un piatto da incorniciare. Oltre alle olive all'ascolana, quelle dop vengono usate nella cucina picena per preparare piatti gustosi come gli Ziti col sugo di magro all'ascolana (pomodoro, tonno e olive tenere) o come il Baccalà di Natalitte (piccolo Natale), preparato e cucinato col baccalà salato, carote, sedano, uvetta e olive. 

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    Il ristorante di Ascoli dove si fanno le olive all'ascolana più buone del mondo è, secondo Tripadvisor (ma non tutti i giudizi sono d'accordo), il locale di Marinella Filipponio, titolare e cuoca, che si chiama, guarda caso, «Migliori olive ascolane». 

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    Un nome, un programma. Marinella raccomanda di snocciolare le olive una a una con un taglio a spirale. Un'operazione lunghissima e noiosa. La cuoca ascolana consiglia di distrarsi guardando un film che duri almeno due ore. «Non importa che sia bello», dice, «l'importante è che sia lungo 120 minuti. Una volta snocciolate, le olive vanno messe nell'acqua che le deve coprire completamente. Nella salamoia vanno messi anche pezzi di finocchio selvatico, possibilmente bollito per evitare che partano fermentazioni indesiderate. 

     

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    Occorre poi preparare l'impasto per la farcitura. Come ingredienti si usano: manzo, maiale, pollo, carota, sedano, cipolla, vino bianco e altre varianti. Quali? Dipende dal gusto e dalla tradizione famigliare. C'è chi mette il salame, chi la mortadella, chi aggiunge un cucchiaino di pomodoro. Sono i tanti segreti tramandati di madre in figlia per cucinare al meglio questo piatto che una volta rappresentava il momento più importante della festa a tavola. Il mio segreto? Capite bene che non posso rivelarlo. Se lo facessi non sarebbe più tale».

     

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