Giuseppe Scaraffia per “La Stampa – TuttoLibri”
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Già da giovane Marcel Proust arrivava sempre in ritardo agli appuntamenti, con un pesante cappotto con il collo di velluto rialzato fino alle orecchie come se fosse tornato da una spedizione artica. Esordiva dicendo che sarebbe rimasto poco, ma quel poco si estendeva infinitamente e, gradatamente, lo scrittore e il suo amico restavano soli nel ristorante che si era lentamente svuotato.
Al momento di andarsene l'alba era già spuntata e Proust riaccompagnava in carrozza la sua vittima, ma, arrivato a destinazione, «gettava l'ancora» e la sua conversazione assumeva una brillantezza sempre più irresistibile. Impossibile abbandonarlo e mentre le ore scorrevano il cocchiere in attesa osservava stupito quei due strani clienti.
Marcel Proust
In quelle aurore boreali della conversazione Proust sembrava, anzi era ancora soltanto un giovanotto mondano, ma il suo modo di parlare anticipava il suo stile che all'inizio sembra sforare un personaggio, una sensazione, un aneddoto, per poi allargarsi imprevedibilmente in spirali successive, sempre più ampie e profonde.
Marcel Proust
Proust, spiega un testimone di quelle albe, per dare il meglio di sé aveva bisogno di sentirsi vicino un cocchiere impaziente. Ci vollero molti anni prima che il romanziere capisse che quel cocchiere non erano tanto i genitori, preoccupati dalla sua inconcludenza, o una sete di gloria, ma più semplicemente la morte.
Per avvertirlo gli aveva mandato, come un biglietto da visita, la malattia, l'asma che l'aveva drasticamente liberato dalle distrazioni mondane relegandolo nella sua stanza foderata di sughero. Come un carceriere indulgente gli consentiva brevi licenze, indispensabili per ritrovare la nota, il viso o la storia che gli mancava.
«Voglio che la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai completa. Anche se già innalzata, occorre sempre ornarla d'una cosa o l'altra, una vetrata, un capitello, una piccola cappella che si apre, con la sua piccola statua in un angolo».
Marcel Proust
Erano gli anni in cui tutti, e lui stesso con loro, gli rimproveravano di perdere tempo senza sapere che stava accumulando il raccolto per il lungo inverno che l'attendeva. Senza badare alle accuse di frivolezza lusingava gli aristocratici di cui avrebbe scritto con la stessa applicazione con cui un altro avrebbe avvicinato e addomesticato un animale selvaggio.
Collezionava visi, abiti e frasi senza sapere bene perché. Si convinceva di essere innamorato di una famosa contessa e come uno stalker la intercettava ogni giorno vicino a casa. Blandiva il dandy più celebre, imprevedibile e feroce come un uccello esotico, senza badare alle sue ripulse, dolorose come colpi di becco.
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Come un insaziabile ornitologo interrogava avidamente camerieri e portinai su particolari impensabili degli oggetti della sua passione. Aveva scelto l'aristocrazia con l'oscuro istinto che lo spingeva verso tutto ciò che stava scomparendo, ritraendola nell'imprevedibile luce del suo tramonto.
Nessuno di quei vacui uccelli del paradiso sapeva che sarebbe rimasto per sempre nelle pagine della Ricerca del tempo perduto. A tratti la vita cercava di distrarlo dall'opera, tentandolo con un amore o una frequentazione che promettevano di salvarlo dalla sua dolente solitudine.
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Ma ogni volta la disillusione lo riconduceva alla conoscenza e alla scrittura. Quel malato attivissimo aveva scritto senza sosta in una gara con la morte incombente. Nell'ultimo volume, Il tempo ritrovato, ogni illusione sull'idolatrata aristocrazia era svanita.
Il cerchio si era chiuso; non a caso madame Verdurin, emblema di una banalità aggressiva, era diventata la principessa di Guermantes. Al Narratore, di ritorno nei salotti dopo una lunga assenza, tutti, tranne poche eccezioni, sembravano uguali, ma come imbiancati da un'invisibile nevicata.
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Quella canizie era la schiuma lasciata sui mondani dall'onda del tempo, prima di travolgerli definitivamente. Ci si potrebbe chiedere cosa abbiamo in comune con lo «snobissimo» protagonista o con i fatui privilegiati che popolano le sue meravigliosi pagine, però basta immergersi nella lettura per ritrovarsi nelle loro gioie e nei loro tormenti. Non è facile leggere Proust, ma è una droga a lenta assimilazione che assuefà chiunque sappia superare la prima sensazione di estraneità.
Fondendo in modo irripetibile e geniale il saggio con il romanzo e l'autobiografia, Proust ha raggiunto l'apice assoluto della letteratura, sancendo implicitamente la sua fine. Eppure basta voltarsi indietro, ai libri che hanno preceduto la Ricerca, da I piaceri e i giorni a Jean Santeuil, per accorgersi che Proust aveva continuato a scrivere lo stesso romanzo fino a raggiungere le cime della Ricerca.
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Come lo schiavo della lampada, l'arte s'inchinava devotamente non ai desideri di possesso di Marcel, ma alla sua volontà di non farsi ingannare dall'apparente volgarità della vita.
Solo Proust sapeva riconoscere, sotto i tratti abusati di una cocotte, quelli epici della figlia di Ietro di Botticelli. Il capolavoro evocato si sovrapponeva al volto reale senza cancellarlo, limitandosi a illuminarne le zone più prossime allo splendore senza fine dell'eternità. Il mistero dell'arte si prestava così a interpretare quello altrettanto indecifrabile dell'esistenza.
Nell'abbraccio alchemico della scrittura, la sconfinata miseria della vita si traduceva nella perfezione vigile e immota dei capolavori, assaporando, al suo interno, l'unico paradiso offerto dall'universo proustiano, quello appunto schiuso dai pennelli del pittore o dalla penna di uno scrittore.
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L'indicibile offre così il braccio all'inesprimibile, mentre l'arte svela la sua essenza di maschera funeraria. È la nostalgia a gonfiare le vele di quella smisurata arca di Noè che è la Ricerca del tempo perduto. Un'arca che lotta contro l'alluvione del tempo che vorrebbe affondarla nell'abisso del passato, sconfitta da un autore che è morto per scriverla, seppellendosi vivo nella sua opera come in una piramide.
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