Paolo Giordano per il Giornale
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Village People e non c’è altro da aggiungere. Pochissimi altri gruppi rendono così bene l’idea, sono così iconografici, insomma basta la parola per identificare la dance che, dalla fine degli anni ’70, ha dato musica all’universo gay diventando subito trasversale, globale, universalmente riconoscibile.
«In effetti siamo stati accolti benissimo dal pubblico fin dall’inizio», dicono loro che domani saranno presentati da Amadeus all’Arena di Verona nel cast di “Arena Suzuki ’60 ’70 ’80” (poi in onda su Raiuno probabilmente per due sabati di fila, il 25 settembre e il 2 ottobre).
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La prima volta di Amadeus come conduttore lì su quel palco, e anche per i Village People che riappaiono dopo tanti anni di assenza dalla tv, ma non dalle radio o dall’immaginario collettivo. «Suoneremo tre brani, Macho man, In the navy e il nostro più grande successo Y.M.C.A», spiegano senza troppe sorprese perché dici Village People e pensi proprio a quelle canzoni.
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Nonostante abbiano venduto oltre sessanta milioni di dischi, il loro racconto ruota proprio intorno a questi ritornelli diventati di uso comune, parodiati in mezzo mondo e tuttora simbolici di un pop coreografato e altamente connotato. Loro sono in sostanza sei personaggi considerati “archetipi dell’immaginario gay” (il poliziotto, l’operaio, il pellerossa, il motociclista, il soldato, il cowboy) che nel tempo sono stati interpretati da musicisti diversi ma comunque sempre vincolati a quel ruolo.
I Village People, letteralmente la gente del villaggio dove villaggio era il Village di New York molto frequentato dalla comunità omosessuale, sono stati un’idea del compositore francese Jacques Morali, morto per complicazioni legate all’Aids pochi giorni prima di Freddie Mercury nel 1991, e sono subito entrati di diritto nella geografia della dance music, quella che dallo Studio 54 di New York si è ritagliata uno spazio nella storia della musica.
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E, dopo 44 anni dalla loro nascita hanno ancora un ruolo a metà tra nostalgia e attualità: «Non pensavamo di durare così a lungo e, se ce l’abbiamo fatta, è merito soprattutto delle nostre canzoni. Senza la musica, noi non saremmo niente». In realtà hanno un’immagine che funziona meglio di tante parole. Non a caso, c’è un rimando a loro nel video di Discoteque degli U2 e, in giro per il mondo, i personaggi di questa band sono stati «richiamati» in centinaia di programmi tv o manifestazioni pubbliche (non solo i Gay Pride, per capirci).
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Persino l’esercito americano ha utilizzato In the navy per una campagna pubblicitaria e i Village People sono ancora così popolari che anche l’ex presidente Trump (subito bloccato) utilizzava le loro canzoni durante la campagna elettorale. «In effetti oggi siamo tra i gruppi più iconici del mondo - spiegano - ma il nostro pubblico è molto più vasto e “largo” rispetto a quarant’anni fa. E di questo, sia chiaro, siamo molto orgogliosi. Ora ci ascoltano pure i giovani, i rockettari e chi ama il rap». Insomma, come riassumono con quell’innocente enfasi tipicamente americana, «tutti amano i Village People».
Di certo tutti li riconoscono subito perché, sia chiaro, quando l’immagine e la musica trovano un punto di equilibrio, diventano fortissimi. E poi si rivelano imbattibili se riescono a non avere barriere. Perciò spiegano subito che «noi siamo pionieri della disco music. Nonostante alcuni di noi siano gay, non siamo tutti gay. Perciò la nostra musica è riferita a tutti senza distinzioni di orientamento sessuale». In poche parole: «Non avremmo mai potuto avere così tanto successo se ci fossimo riferiti a un solo segmento della società». In effetti.
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Ma oggi? Potrebbero nascere nuovi Village People? «Se iniziassimo oggi, molto probabilmente sarebbe più facile diventare famosi. Negli anni Settanta abbiamo veramente fatto tanta fatica. Ma ora ci sono i social network, cosa che era impensabile quarant’anni fa. Quindi sì, per i nuovi Village People sarebbe più facile». Loro intanto si godono non solo le royalties ma pure quella popolarità planetaria che li porta anche in Italia nell’epoca del politicamente corretto e della cancel culture: «Dalla politica restiamo rigorosamente fuori. E per quanto riguarda la cosiddetta “cancel culture”, non siamo d’accordo. È più importante dimenticare e concedere una seconda opportunità».
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Un punto di vista, anche questo, calibrato e per nulla estremista. In fondo non vogliono consegnarsi alla nostalgia canaglia. E difatti: «In primavera uscirà il nostro nuovo anno». Il ritorno di un gruppo che basta il nome per rendere l’idea.