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    FACEBOOK E' VIVO E LOTTA INSIEME A NOI – LA NOTIZIA DELLA MORTE DEL SOCIAL È AMPIAMENTE ESAGERATA. NONOSTANTE LO SCANDALO “CAMBRIDGE ANALYTICA”, ZUCCHINA ZUCKERBERG HA GUADAGNATO IN UTILI E ISCRITTI (+13%) - LE PERSONE SONO ORMAI DIPENDENTI DALLA PIATTAFORMA, DOVE HANNO ACCUMULATO TROPPI RICORDI CHE NON VOGLIONO PERDERE. E GLI INSERZIONISTI NON HANNO SCELTA…

     


     
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    Riccardo Staglianò per “il Venerdì – Repubblica

     

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    Lo scandalo Cambridge Analytica, dal nome dell'azienda britannica che ha rastrellato 87 milioni di profili Facebook, ha prodotto una tempesta mediatica da quasi 17 milioni di risultati su Google.

     

    Molti di quegli articoli sono ispirati dalla medesima convinzione: stavolta Zuckerberg l'ha fatta grossa, non la passerà liscia. Il 21 marzo, quattro giorni dopo lo scoop di New York Times e Guardian, Bloomberg Businessweek dedicava la copertina alla vicenda.

     

    Con tante manine, equivalenti ad altrettanti puntatori, che si affollavano intorno al pulsante Delete my Facebook. Settantadue ore dopo, l'Economist faceva altrettanto titolando "Epic fail", fallimento epico.

     

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    Era l'inizio della fine? A due mesi dai fatti possiamo dare una risposta: no. Dopo aver cancellato 134 miliardi di valore di Borsa, la compagnia di Menlo Park non solo ha recuperato ma, nella prima trimestrale del 2018, ha spiazzato gli analisti facendo registrare ricavi per 11,9 miliardi di dollari (+ 49 per cento rispetto all'anno prima) e utili netti passati da 3 a 4,9 miliardi.

     

    Ma il risultato più sorprendente riguarda gli iscritti. Invece del fuggi fuggi, sono cresciuti del 13 per cento, sfondando quota 2,2 miliardi. Il quesito resta.

     

    Per quale ragione sia gli utenti che i pubblicitari sono rimasti insensibili tanto alla disinvolta vendita a troll russi di pubblicità elettorali quanto all'aver consentito all'azienda di marketing politico di utilizzare un tesoro di dati personali al fine di manipolare il voto dei loro titolari?

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    E dunque vale anche per la piattaforma la sbruffonissima affermazione dell'allora candidato Trump per cui avrebbe potuto "sparare a qualcuno sulla Quinta strada senza perdere neppure un elettore"?

     

    La difficoltà dei traslochi è direttamente proporzionale al tempo in cui si è vissuto nella casa che si lascia. Molti vivono su Facebook dalla fondazione, correva il 2004, e hanno accumulato un sacco di mobilio, oggetti, ricordi.

     

    Sloggiando da quell'appartamento virtuale dovrebbero riorganizzare molti aspetti della propria vita sociale. "I nostri rapporti con gli altri sono intrappolati nella piattaforma. Ne siamo dipendenti" spiega Anja Bechmann dell'Università di Aarhus in Danimarca "e in molti Paesi Facebook è sinonimo di internet.

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    L'infrastruttura attraverso la quale gestire eventi, comprare e vendere online, discutere di malattie e così via. Di fronte a questa convenienza la privacy perde sempre". Basti ricordare che 15 milioni di siti usano le sue credenziali come alternativa alla registrazione, una sorta di passepartout digitale.

     

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    E sebbene tendiamo a parlarne al singolare, il social network è uno e trino e possiede tre delle dieci app più usate: Facebook, Facebook Messenger e Instagram. Il che rende ancora più arduo divincolarsi dalla sua presa.

     

    Ovvero, per dirla con Mark Muro della Brookings Institution, "ha raggiunto dimensioni tali da isolarla da possibili sovvertimenti. La gente ha ancora la sensazione di ricevere qualcosa in cambio di niente. Per ciò sarebbe essenziale una regolamentazione pubblica".

     

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    Dal momento che, con una formula spesso citata ma poco interiorizzata, quando ti danno qualcosa gratis il prodotto sei tu. Con i tuoi dati, gusti e preferenze offerti in pasto all'algoritmo per metterlo in grado di recapitarti la pubblicità più personalizzata.

     

    Circa un miliardo di persone, navigando su siti che non c'entrano niente, sono inseguite da banner che assomigliano ai like che hanno stampigliato sul social network. Grazie a quest'impareggiabile conoscenza dei fatti nostri, Facebook è diventata, con oltre 460 miliardi di dollari, l'ottava azienda al mondo per capitalizzazione di Borsa.

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    Da sempre però gli inserzionisti sono sensibili alla reputazione dei media dove piazzano i loro messaggi, perché non stavolta?

     

    "Non hanno scelta, nessun altro mezzo offre loro la possibilità di mirare lo spot con una precisione comparabile" dice Daniel Ives, capo analista finanziario di Gbh Insights, "comunque, stando a un sondaggio che ho effettuato, circa il 15 per cento degli utenti ridurrà il tempo trascorso sulla piattaforma di una quantità che potrebbe far diminuire del 3 per cento i ricavi pubblicitari.

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    Resta che lo scandalo ha partorito giusto un piccolo dosso stradale, e non certo una significativa deviazione".

     

    Anche perché, nel medesimo sondaggio, Ives ha scoperto che quasi metà del campione (magari lo stesso la cui dieta informativa deriva tutta dal social network) sapeva poco o niente dell'affaire Cambridge Analytica.

     

    zuckerberg e hughes a harvard zuckerberg e hughes a harvard

    Il suo collega di Pivotal Research Brian Wieser è tra quelli che si erano esposti di più ("Vendete le azioni") all'indomani del caso. Per email chiarisce che la sua raccomandazione "Sell" risale al secondo trimestre del 2017, quando il titolo si era impennato senza ragionevoli motivi: "La ribadisco oggi e penso anche che gli effetti si valuteranno nel lungo periodo.

     

    mark zuckerberg, dustin moskovitz e chris hughes fondatore facebook mark zuckerberg, dustin moskovitz e chris hughes fondatore facebook

    Per assistere a un'emorragia dei pubblicitari ci vorrebbe una fuga a doppia cifra degli utenti che oggi, invece, si limitano a stare meno online. D'altronde con che faccia i pubblicitari potrebbero stigmatizzare Cambridge che ha tentato di fare, a fini politici, ciò che loro fanno da sempre a fini commerciali?".

     

    Già. Mozilla e Sonos sono tra le poche aziende che hanno cancellato le loro campagne ma tutti giurano che, quando il polverone si poserà, torneranno.

     

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    L'altro fronte da cui potrebbero venire guai è quello politico. Facebook lo presidia con 7 milioni di dollari di finanziamenti elettorali che negli ultimi dodici anni sono stati versati equanimamente, con una preferenza per i Democratici.

     

    Dividendoli nel tempo non si tratta di cifre enormi. Fa più impressione che tra i beneficiari ci fossero anche i membri del Congresso davanti ai quali Mark Zuckerberg ha dovuto giustificarsi.

     

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    Però lo stesso Center for Responsive Politics che ha svelato il conflitto di interessi ha anche riconosciuto come il democratico Cory Booker, con 44 mila dollari il primo beneficiario, sia stato più duro di altri che han preso molto meno.

     

    Dal 2009 l'azienda ha anche investito 52 milioni di dollari in lobbisti. Il britannico Luc Delany è stato uno di loro, il secondo assunto in Europa per perorare la causa dell'azienda a Bruxelles.

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    Chiedo a lui, che ora si è messo in proprio, il segreto di questa azienda Teflon cui tutto sembra scivolare addosso: "Finché si tratterà di scandali senza nome, dove la violazione della privacy si spalma su milioni di persone, nessuno si sentirà davvero danneggiato.

     

    Paradossalmente la singola foto di una singola persona con nome e cognome finita nelle mani sbagliate nuocerebbe molto di più all'immagine di Facebook.

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    Circa le tiepide reazioni dei pubblicitari, invece, va considerato che i budget si decidono molto in anticipo e che le campagne erano già state pagate".

     

    Quanto agli articoli precocemente catastrofisti, per Delany si spiegano con una specie di "inconscia volontà di vendetta dei giornalisti per l'azienda che sta mangiando il loro pranzo".

     

    I lobbisti sono molti e molto attivi, ma non sono loro - concordano tutti e sei gli intervistati - a determinare i comportamenti degli utenti.

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    "La loro vera responsabilità" spiega Evgeny Morozov, uno dei più acuti osservatori dell'economia digitale, "è di aver creato negli ultimi vent'anni le condizioni che hanno consentito il commercio dei dati e il loro libero flusso tra Paesi, decretando il primato americano e rendendo molto difficile per i governi sostenere le proprie aziende tecnologiche".

     

    Quanto agli investitori pubblicitari, osserva il sociologo bielorusso, "dove troverebbero un'alternativa più efficace di Facebook?": "Non vedo segni, né da Washington né da Bruxelles, di voler intervenire radicalmente sul funzionamento della piattaforma".

     

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    È vero che nella penultima trimestrale il social network ha fatto registrare il primo calo di utenti della storia: 700 mila persone tra Stati Uniti e Canada, a quanto pare deluse da una modifica dell'algoritmo che penalizzava i video virali.

     

    E nessuno, Nokia docet, è immune da improvvisi rovesci. Ovvero, come ripetono nella Silicon Valley, è utile vivere come se si fosse sempre a sei mesi dal rischio bancarotta. Detto questo la notizia della morte di Facebook è, per il momento, ampiamente esagerata.

     

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