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    NOSTALGIA CHINAGLIA – IN UN LIBRO L’EPOPEA DELLA LAZIO SCUDETTATA DEL ’74 TRA PISTOLE, PARTITELLE/CORRIDA, SPOGLIATOI SCACIATI E UNA ROMA SONTUOSA E STRACCIONA - LA FOTO DI "LONG JOHN" CHINAGLIA CON IL FUCILE, L’ILLUSIONE DI RE CECCONI (“AVREMO 20 ANNI PER SEMPRE”) - LA SCENA DA OSCAR DELLA MOGLIE DI MAESTRELLI NELLA CAMERA DELLA CLINICA DOVE IL MARITO SI STA SPEGNENDO. LEI GLI CHIEDE L’AUTOGRAFO. “LO FAI SOLO ALLE TUE AMMIRATRICI? IO TI AMMIRO DA 30 ANNI”. E LUI...


     
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    Gabriele Romagnoli per Il Venerdì – la Repubblica

     

    chinaglia lazio '74 chinaglia lazio '74

    Ogni tempo produce diverse regole e almeno un’eccezione. Le prime servono per spiegarlo, ma è con l’ultima che lo si può raccontare. L’anomalia, che solamente lì ed allora sarebbe stata possibile, contiene l’esplosione e il tramonto di un’epoca. Negli anni Settanta una delle più evidenti fu una squadra di calcio: la Lazio. Quella di Chinaglia e Wilson, con Maestrelli in panchina e Lenzini alla presidenza.

     

    Un’intrusa al ballo. Chiunque si sia inserito tra Juventus, Inter e Milan ha conquistato le simpatie del resto d’Italia: dal Cagliari al Verona, alla Sampdoria. La Lazio no. E non soltanto perché era una squadra della Capitale. Perché era quella cosa lì, irripetibile, con il senno di poi ancor più impossibile. Eppure fu. E vinse.

     

    chinaglia maestrelli chinaglia maestrelli

    Non fu il successo a connotarla, fu la sua stessa esistenza: un esperimento chimico che avrebbe dovuto portare all’esplosione secondo qualsiasi libro di testo, invece stabilì un equilibrio tra elementi incompatibili. Quel tempo fu l’ingrediente chiave, un attimo dopo non sarebbe potuto accadere, infatti un attimo dopo tutto svanì.

     

    IL CENTRAVANTI COL FUCILE Le situazioni straordinarie lasciano tracce nella cronaca, si nobilitano nella memoria e contengono in sé il nocciolo del romanzesco come pretesa. È a una versione narrativa che demandano la propria rappresentazione, cercando al contempo libertà e accuratezza. A quella impossibile Lazio dedica un romanzo Angelo Carotenuto, firma di queste pagine.

     

    chinaglia chinaglia

    La copertina è già una manifestazione d’intenti. Il titolo, Le canaglie, allude a una caratteristica, diversamente leggibile (simpatiche canaglie, canaglie e basta), della maggior parte dei protagonisti. La foto ritrae Giorgio Chinaglia con maglia, pantaloncini, scarpini slacciati e un Winchester tra le mani, sullo sfondo di uno spogliatoio scaciato. La scattò Marcello Geppetti, l’uomo che riprese la dolce vita e quella Lazio, a cui è ispirato il personaggio del fotografo che fa da voce narrante.

     

    LA METÀ OSCURA DI ROMA Le Canaglie sono una capsula del tempo. Mentre leggevo ho annotato i richiami dell’epoca, via via che riecheggiavano. Alti e bassi, in ordine sparso e confuso come si era: il referendum sul divorzio, il tuca tuca, l’assalto alle Olimpiadi di Monaco, Inardi a Rischiatutto, l’austerity, il colera a Napoli, i morti di Primavalle, il Rex di Fellini per Amarcord, l’omicidio di Pasolini. E buongiorno notte: poi sarebbe stato ucciso Aldo Moro e tutto quel rumore di fondo anziché una rivoluzione avrebbe prodotto fughe in India o nella droga, tv commerciale e restaurazione all’aperitivo.

     

    wilson maestrelli chinaglia wilson maestrelli chinaglia

    Carotenuto ha svolto un lavoro di ricerca durato quattro anni. Se cita la voce di Ameri alla radio gli fa dire le esatte parole. Lo stesso per Vespa al telegiornale. Sono ricreati ma credibili anche i dialoghi dei calciatori. La prosa che li accompagna è andata alla ricerca di un linguaggio perduto. Diceva Sordi: «Di romanesco esistono solo i carciofi».

     

    Ma il romano è una lingua da reinventare. La storia si svolge tra l’autunno del 1971, quando la Lazio delle canaglie è ancora in B, e l’inizio del 1977, quando si dissolve. Sarebbe sbagliato pensare che lo scudetto sia il punto chiave.

     

    tommaso maestrelli chinaglia tommaso maestrelli chinaglia

    Quello è un incidente, uno sviluppo che mette sotto i riflettori uno spettacolo che si svolgeva comunque, nell’ombra che sempre avvolge metà di Roma, mentre tutti guardano il sole. Ancor più limitante sarebbe credere che si tratti di un romanzo sul calcio. Non c’è un dribbling, si affronta la realtà. I veri temi sono altri. Essenzialmente tre: il conflitto, la perdita, la fine.

     

    giorgio chinaglia giorgio chinaglia

    FIGLI DI MAESTRELLI Il conflitto era il comune denominatore di quel periodo, così intenso da farsi epoca. Sì o No. Rossi o neri. Con lo Stato o con le Br. Lo si risolveva nella lotta, prevalentemente nel sangue. Non c’erano mediazioni. Non affioravano soluzioni di interesse comune. Spranghe, molotov, pistole. Cancellazione dell’idea avversaria. Nella Lazio accadde l’incredibile: due mondi diversi e opposti trovarono un’orbita comune.

     

    giorgio chinaglia giorgio chinaglia

    Due clan dichiarati invece di cercare l’eliminazione l’uno dell’altro collaborarono, per forza, per necessità, ma anche per una sottesa forma di rispetto che nasceva proprio dalla mancanza d’ipocrisia, dal non aver mai fatto finta di essere alleati. Roma divampava e la Lazio faceva del proprio fuoco brace, evitava l’incendio. Riconosceva il principio che tutto accende: il padre, Tommaso Maestrelli, che di quella sua arte di tenere tutto insieme pagherà il conto con il male che accoglierà dentro di sé.

     

    giorgio chinaglia giorgio chinaglia

    La perdita era il destino, familiare a tutti. La perdita nei roghi di periferia accesi per odio indeterminato. La perdita delle figlie che una sera non tornavano a casa e non si ritrovavano mai più. La perdita del genitore, che si spegne inevitabilmente dopo aver tentato il miracolo laico della resurrezione di sé e dei suoi ragazzi. La perdita inimmaginabile del ragazzo che scherza con il fuoco, se mai è davvero per questo che morì Re Cecconi. Tutto così rapido, feroce e incolmabile. La felicità passa, il dolore resta. Lo scudetto è un trionfo transitorio, un autobus che scarica in fretta.

     

    tommaso maestrelli tommaso maestrelli

    Sembrano tutte, le canaglie, Dustin Hofmann nella scena finale del Laureato. Si è ripreso la ragazza, si guardano: e adesso? Lo domanda Martini a Pulici, la sera della vittoria: «E adesso, Felice, che facciamo?». Tra l’illusione di Re Cecconi («Avremo vent’anni per sempre») e il sogno di un tifoso sdentato («Vorrei che stasera nessuno morisse») affiora, nel vuoto che già si crea intorno, una constatazione amara: «lo scudetto sta slittando nel gelo della storia». Poi la calotta si richiude.

     

    Non resta che la fine. Quegli anni la segnano per un calcio che i ragazzi nati dopo non hanno mai conosciuto e neppure immaginano. Non solo dentro, ancor più fuori dal campo. Il calcio dei sacerdoti al seguito. Dei calciatori al cinema come gli altri spettatori. Delle fughe dal ritiro con le lenzuola annodate. Così comuni e mortali che morivano davvero.

    tommaso maestrelli tommaso maestrelli

     

    Tra tutti i momenti in cui finisce quel mondo, ognuno ha in testa il proprio. Scelgo questo, a pagina 238: quando (è il primo luglio 1974) i calciatori ottengono di poter apparire a Carosello facendo pubblicità: Mazzola a un cioccolato, Boninsegna ai mobili, Zigoni ai biscotti. Dopo è quasi inevitabile si arrivi alle mutande di Cristiano Ronaldo, alle storie Instagram della famiglia Icardi e alla rasatura da bomber, in qualunque cosa consista. Non bisogna mai confondere la memoria con la nostalgia, il retrovisore inganna, l’occhio no: la politica non era affatto migliore, il calcio eccome.

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    UN AMORE COSÌ GRANDE Le canaglie collezionano aneddoti oggi irripetibili: il presidente chiuso in bagno dall’allenatore nell’ultima ora di mercato per evitare gli venda il centravanti, gli attori famosi e il figlio di un presidente che si mettono in coda per partecipare alla partitella/corrida del venerdì, l’auto del dottore spinta sul fondo della piscina dell’albergo. E la moglie dell’allenatore che cucina, la sera, per tutti.

     

    Ecco, a Lina Maestrelli va l’Oscar da non protagonista. Come a Judi Dench, le sono bastati 8 minuti. La scena è nella camera della clinica dove il marito si sta spegnendo. Lei gli chiede l’autografo. Lui pensa sia impazzita. «Perché a me no? Fai gli autografi solo alle tue ammiratrici? Io ti ammiro da trent’anni». Lui scrive: «A Lina, non ancora di me stanca». Poi si vede allo specchio e capisce che sta finendo, che la storia ha esaurito la pazienza per le eccezioni.

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