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Giuseppe Scaraffia per “il Venerdì - la Repubblica”
In Francia ritorno di fiamma per il bidet. Più che legittimo perché è proprio nel libertino secolo dei lumi che è nato quel «mobiletto scandaloso», come lo chiama François Forestier sul Nouvel Observateur, denunciando il suo inarrestabile declino.
Ormai, denuncia, tranne che in Spagna e in Italia, la doccia all’americana sta vincendo ovunque e in Normandia usano il bidet come fioriera. E pensare che Cioran definiva la Francia «la civiltà del bidet», rievocando il suo stupore quando, arrivato dalla Romania, si era trovato di fronte a quell’oggetto sconosciuto.
Erano state le prostitute a lanciarlo nel XVIII° secolo, ma l’erotismo dell’epoca l’aveva diffuso in tutti gli strati sociali. In un catalogo del 1739 un falegname parigino presentava un bidet dotato di uno schienale e di un ripiano ribaltabile e un doppio bidet usabile da due persone contemporaneamente. La Pompadour ne aveva uno magnificamente intarsiato. Madame du Barry, ne aveva una collezione guarnita di velluto e riccamente decorata.
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Non si sa per quale motivo in piena rivoluzione, nel 1790, l’Almanach des honnêtes femmes caldeggiasse una Festa del bidet e perché mai designasse il 2 febbraio. Ma è interessante la spiegazione: «Molte donne chiamano il bidet il loro confessore. Cancella ogni peccato con un’abluzione perfetta». Non a caso il pittoresco saggio di F.Beaupré et R.-H. Guerrand si intitola Le Confident de ces dames. Le bidet du XVIIIe au XXe siècle : histoire d’une intimité (La Découverte).
Napoleone anche nelle sue campagne militari non si separava mai da un bidet in argento dorato, custodito in un fodero di mogano. Il bidet riaffiora perfino nel suo testamento, in cui lasciò al figlio quello eroico adoperato prima della battaglia di Austerlitz. L’autore di Cyrano, Rostand, aveva investito i suoi primi guadagni in un bidet. Colette, reduce da tante avventure, raccomandava alla figlia di procurarsi un «buon bidet a quattro zampe con la vaschetta in porcellana». Nell’atelier del giovane Picasso spiccava un bidet. Quello di Le Corbusier in bella vista nella stanza irritava la moglie.
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Ma c’era anche chi come Scott e Zelda Fitzgerald, appena sbarcati a Parigi, lo usava per fare il bagno alla bambina. O, come Isadora Duncan, vi nascondeva le bottiglie appena scolate. «Secondo te qual è l’equivalente italiano della parola bidet?» aveva chiesto D’Annunzio a Mussolini, in visita al Vittoriale. Poi l’aveva incalzato: come lo chiamavano in Romagna? E il duce arrossendo aveva dovuto ammettere che da loro il bidet non c’era.
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Con Sartre il bidet era diventato uno specchio esistenzialista del nulla: «Era seduta sul bidet, aveva l’aria assonnata e di sicuro aveva scordato il suo corpo e persino il suo viso». Anni dopo, Montale, suggestionato dal celebre orinatoio di Duchamp, meditava: «Chi mandasse un bidet arrugginito alla Biennale di Venezia potrebbe sostenere di esserne pure l’autore, in quanto l’atto creativo consiste nell’avere identificato l’artisticità di quell’arnese e di quelle macchie».
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