Estratto dell'articolo di Flavio Vanetti per www.corriere.it
miriam sylla
Dall’estate 2021 è la capitana della Nazionale femminile di volley (oltre che una delle eccellenti protagoniste del campionato di serie A, ora con la maglia di Monza), ma Myriam Fatime Sylla – nulla di miracoloso o soprannaturale: Fatima era la nonna paterna – è prima di tutto una ragazza dalle mille qualità: solare, gioiosa, dalla mente aperta, mai banale. La sua è una vita da film. La storia che la riguarda, fatta di dolori, tenacia e riscatto, affonda le radici in Africa: «Il legame con la Costa d’Avorio sarà eterno.
miriam sylla e i genitori
Non ho mai avuto modo di conoscerla, prima o poi rimedierò». La sua esistenza si è sviluppata, all’insegna dell’integrazione e dell’emancipazione, nella Palermo in cui è nata e che per tante buone ragioni le è rimasta nel cuore, nonostante adesso la possa frequentare poco perché la pallavolo la porta in giro per il mondo. Però la “calamita” funziona ancora. «Sono andata via quando avevo 5 anni, poi ho vissuto Palermo, grazie ai miei nonni, fino ai 14. Quando lo sport mi ha riempito le estati, non sono più potuta tornare. Ma un mese fa ho fatto una sorpresa alla nonna, che non mi vedeva da un bel po’: mi ha trovato un po’ cresciuta…».
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Nonni “speciali”, li ha definiti…
«Sono angeli. Mio padre è stato fortunato a incontrare quelle due persone. Se mia nonna non gli avesse dato un passaggio, non so proprio che cosa sarei stata».
Ci racconta come andò quella volta?
«Papà era arrivato a Bergamo. Dormiva alla Caritas. Ma faceva freddo e mio zio soffriva: così si trasferirono al Sud. Una sera quella signora, rientrando a casa in macchina, vide mio padre e lo aiutò. Lui cominciò a lavorare per la famiglia, quindi mia mamma lo raggiunse: quando nacqui io, queste due persone si affezionarono. Alla nursery facevano vedere a mia nonna tutti i bimbi bianchi. E lei: “No, è quella lì”. L’infermiera strabuzzava gli occhi…».
Myriam Sylla, un’italiana che si sente sempre siciliana?
«Ma se sono siciliana non sono forse italiana?»
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Certo che lo è. Era per enfatizzare che la Sicilia, prima che la famiglia tornasse al Nord, ha avuto un ruolo centrale.
«Sono cittadina d’Italia, io sono ovunque. A Palermo c’è il mio inizio ed è il luogo dei nonni adottivi. Ha sole, caldo, allegria: mi assomiglia».
Ce la racconti, allora, tra memorie, angoli preferiti e luoghi del cuore.
«Al primo posto metto il grande mercato di Ballarò, è anche il più antico ed è la cosa che ricordo più di tutte: mi piaceva accompagnare la nonna a fare la spesa. Poi arriva Mondello, il luogo dello svago: spiaggia, mare, caldo. Andavo serenamente tra gli ombrelloni – sì, la nonna mi lasciava libera – e avevo modo di fare tante conoscenze. Lì vicino c’era pure una pasticceria nella quale mi comperavano sempre il cannolo o la ciambella con lo zucchero. C’era anche un’edicola di giornali, che oggi purtroppo non esiste più. Avevo il permesso di stare assieme alle figlie dell’edicolante: così ero sotto controllo e lontana dai pericoli».
miriam sylla e la madre
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Palermo a volte può essere una città problematica: ha mai avuto la percezione di dover stare attenta?
«No, però avevo un’età nella quale non ero ancora pienamente in grado di valutare il pericolo. Comunque, non ci ho mai pensato».
La strage di Capaci, quella di via d’Amelio: che cosa prova di fronte a questi nomi che si legano a momenti di terrore?
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«Be’, profonda tristezza prima di tutto. Tutte le volte che si va all’aeroporto si passa per Capaci, è impossibile non avvertire un brivido. Purtroppo quando ero piccola non potevo sapere e capire molto. Però della strage di Capaci mi raccontarono i genitori, che lavoravano in zona: l’attentato paralizzò la vita, c’era grande confusione».
Sua mamma è mancata nel 2018, la sua famiglia ora è in Lussemburgo.
«Ci vivono mio papà, che lavora sui treni, oltre a mio fratello e a mia sorella. La famiglia mi manca e quando avevo 25 anni ho perso un cardine: la mamma è sempre… la mamma. Ed è morta tra le mie braccia. In quel momento, però, ho avuto anche grandi testimonianze d’affetto. Ad esempio, quella di Paola Egonu, una persona per me speciale: mi disse che avrebbe mollato ogni cosa e sarebbe venuta con me. Non è da tutti e lei all’epoca giocava ancora a Novara».
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Lei riesce a perdonare chi dà del “negro”?
«Che lo dica per insultare o tanto per parlare, io correggo sempre. E spiego che i compagni mi prendevano in giro, mi svuotavano lo zaino nel pullman e non mi facevano sedere accanto a loro. Non gliela farei passare liscia: non odio, però evito di perdonare».
Si diceva che lei a scuola tirasse i banchi.
«Mamma mia, è la solita storia che si ripete: è capitato solo una volta… A casa regnava la povertà e io cercavo di essere pacata. Poteva allora capitare che a scuola sfogassi quello che avevo dentro: oggi non rifarei nulla, ma si sbaglia per imparare».
Si è battuta per lo ius soli…
«Non avrei dovuto? Per 10 anni ho avuto un passaporto verde, pur non essendo stata in Costa d’Avorio ed essendo nata e vissuta in Italia. Ad un certo punto ho avuto una crisi d’identità e mi sono detta: sono italiana oppure no?».
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In un’intervista del 2021 lei disse, parlando dei barconi e dei migranti: «Su uno scafo sarei potuta finire pure io. E mio padre avrebbe potuto essere uno che lavorava nei campi guadagnando due centesimi all’ora». Due anni dopo non pare che siano stati fatti veri progressi…
«Sono tanti gli argomenti sui quali non si fanno progressi… Se ne parla, ma alla resa dei conti non si avanza. Comunque, che cosa dovrei dire? La mia parola non cambia la situazione».
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