Massimo Raffaeli per “il Venerdì - la Repubblica”
I suoi non erano dribbling ma pases de tango, i segni fisiognomici, i capelli arruffati, gli occhi scuri e adusti o persino torvi nella incandescenza del gioco non richiamavano i tratti di un calciatore ma quelli piuttosto di un espada insolente e protervo: il gesto più caratteristico dell' oriundo argentino Enrique Omar Sivori (1935-2005) era peraltro il tunnel, cioè la palla fatta passare tra le gambe di un avversario, con cui irrideva gli arcigni difensori di un tempo, i quali ricambiavano mirando alle sue caviglie nude perché lui, quasi a volerli adescare provocandoli, giocava con il calzettoni perennemente abbassati.
Aveva come si dice un piede solo, il sinistro, che tuttavia sapeva usare come un pennello prodigioso (una volta riuscì a segnare, nell' acquivento di San Siro, alzandolo dalla pozzanghera in cui era sprofondato), portava la classica maglia numero 10 dei padreterni del centrocampo ma non aveva un ruolo ben definito perché in effetti giocava da punta truccata, sbucando in area all' improvviso e colpendo con la perfida malignità di un aspide (e un' altra volta, davanti alla porta vuota, aspettò il ritorno di due difensori per dribblarli di nuovo e poi depositare il pallone con ineffabile impassibilità).
sivori maradona
Non si è mai veramente allenato in vita sua, le sue passioni erano i suoi stessi vizi, dunque whisky, poker e la musica di Carlos Gardel: ombroso, egocentrico, continuava a ribollire in lui la veemenza del peronista di sinistra, l' autentico descamisado che era stato da ragazzo, insieme con una dolcezza e una generosità del tutto introverse che però riaffioravano di colpo come quando, già gravemente malato, nel febbraio del 2004 volò da Buenos Aires a Leeds per l' estremo saluto a John Charles, ex centravanti della Juventus detto "il gigante buono", di cui aveva ammirato non solo la potenza squassante ma il profilo del gentiluomo da cui, senza battere ciglio, aveva accettato due sberle plateali mentre stava per scalciare l' arbitro durante un turbolento Juve-Sampdoria.
Di tutto questo, e a specchio di un personale romanzo di formazione, tratta il volume biografico di Andrea Bosco Omar Sivori. L' angelo con la faccia sporca (prefazione di Italo Cucci, postfazione di Gino Stacchini, Minerva Edizioni, pp. 186, euro) dove la passione del tifoso, con i suoi ineluttabili moti nostalgici, è comunque mediata da una informazione di prima mano e da una scrittura nitida.
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Il sottotitolo viene da trio cara sucia, "angeli dalla faccia sporca", così nel 1957 chiamano gli assi giovanissimi dell' Argentina campione del Sudamerica, tre oriundi che in quella stessa estate, comperati a cifre folli, trasvolano nella terra degli avi: Humberto Maschio, di origini pavesi, che in campo è un mite Toscanini finisce al Bologna, Antonio Valentin Angelillo all' Inter, avi lucani e volitante profilo di goleador, infine Sivori, di ascendenti liguri e abruzzesi, dal River Plate passa alla Juventus.
Qui, intorno a lui e a Charles, viene costruita una magnifica squadra dove Sivori sfavilla ma stenta ad accettare il carisma e il potere di Giampiero Boniperti, calciatore di classe nitidissima, che invece è l' uomo della ditta, rispettato e ascoltato dal club di cui un giorno diverrà presidente.
Sivori resta otto anni alla Juve e il suo tabellino è eloquente, 215 partite e 135 gol, vince tre campionati ma colleziona per le sue intemperanze qualcosa come 9 espulsioni e 33 giornate di squalifica. Gioca in maniera ditirambica ma va a fasi alterne, tanto che la Juventus chiama ad allenarlo il suo vecchio maestro al River, Renato Cesarini, peraltro suo complice in quelle passioni che sono i suoi stessi vizi.
Nel 1961, l' anno apicale, il settimanale France Football gli assegna il Pallone d' oro, massimo riconoscimento continentale, definendolo un footballeur de rêve, un calciatore da sogno. Con la maglia stavolta della nazionale italiana partecipa nel' '62, tra le polemiche, alla sventurata spedizione ai Mondiali del Cile, e anche alla Juve, come capita di dire a Gianni Agnelli, non è più concepito come un genio ma oramai come un "vizio". Per liquidarlo e metterlo alla porta, viene assunto in panchina un ex sottufficiale dell' esercito paraguayano, Heriberto Herrera, ("un ginnasiarca senza fantasia", lo battezza Italo Cucci), maniaco della preparazione atletica e del controllo del peso, nemico giurato dei fuoriclasse e di quanti pretendano sottrarsi agli schemi di gioco e ad un pressing ubiquitario che egli chiama movimiento.
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l' allevatore nel pallone Fatto sta che, accolto da una folla in delirio alla stazione di Mergellina, Sivori passa al Napoli di Achille Lauro e, vicino al grande intramontabile José Altafini, spende nei residui tre campionati gli spiccioli della sua classe sovrana. Ma nell' anno che più gli assomiglia e ne commemora gli estri, il 1968, questo autentico Battista di Diego Armando Maradona smette con il gioco del calcio e torna in Argentina.
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Vive da ricco allevatore nella nativa San Nicolàs de los Arroyos perché la carriera di Commissario tecnico della nazionale albiceleste (pare che con i giocatori fosse, per contrappasso, più inflessibile del vecchio nemico Heriberto) gli viene affossata dalla destra peronista di ritorno al potere.
Negli anni della dittatura militare si rinchiude, a parte i ritorni in Italia per le comparsate alla Domenica Sportiva dove, al solito pungente, affianca l' amico Sandro Ciotti. Torna un' ultima volta nell' estate del 2004, a Senigallia, per l' inaugurazione di un monumento dedicato a Renato Cesarini. Lì, qualcuno del pubblico gli si avvicina porgendogli per un autografo copia del bellissimo romanzo di Salvatore Bruno, L' allenatore (1963, suoi sponsor, allora, Geno Pampaloni e Cesare Garboli), quasi un romanzo dell' artista da tifoso che gli è espressamente dedicato: Sivori guarda la dedica sorpreso, perplesso, poi aggiunge con un sorriso di grande tenerezza Mah io allora non leggevo uscivo, mi vedevo con Renato Cesarini, facevo altro…
sivori 1 sivori agnelli sivori tullio farabola ACHILLE LAURO SIVORI