Alberto Mattioli per “la Stampa”
ambroise thomas
Su Ambroise Thomas (1811-1896) pesa come un macigno la famigerata boutade attribuita a Emmanuel Chabrier, ma così cattiva che potrebbe in effetti essere davvero sua: «Ci sono tre tipi di musica: quella buona, quella cattiva e quella di Thomas». In effetti, il Nostro è stato lungamente dipinto come una specie di filisteo, summa del cattivo gusto borghese e del perbenismo musicale: primo compositore a essere elevato al grado di commendatore della Legion d’Onore, direttore del Conservatorio di Parigi (dal 1870) e qui considerato «savant» ma accademico, scandalizzato dalla wagneromania di fine secolo (aveva però l’attenuante di essere di Metz, persa dopo la disastrosa guerra franco-prussiana, quindi è comprensibile che i tedeschi non gli stessero simpatici), critico verso Franck e Fauré e scettico sul giovane Debussy, mentre aveva capito subito chi era Massenet. In più, anche presuntuoso, perché i suoi tre titoli operistici maggiori s’ispirano, miniaturizzandola, alla letteratura più grandiosa: dunque «Mignon» da Goethe (1866), «Hamlet» da Shakespeare (1868) e «Francesca da Rimini» da Dante (1882).
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Poi succede che vada in scena, all’Opéra-Comique di Parigi, appunto «Hamlet», e si scopre che Thomas vale di più di quanto ha sempre detto la maggioranza della critica (ma anche, forse, meno di quel che sostiene la minoranza dei fan, pochi ma agguerriti). «Hamlet» è un grand-opéra atipico. L’opera fu pensata in realtà per il Théâtre-Lyrique, che a metà Ottocento era la sala parigina all’avanguardia, sede delle sperimentazioni drammaturgiche e musicali, ma dopo che Thomas aveva trionfato alla Comique con «Mignon» se ne impossessò l’Opéra.
Del «grande» genere ha la struttura in cinque atti, l’indispensabile balletto (qui purtroppo tagliato) e tutto l’apparato di cori, marce, scene di massa e altre amenità. Tuttavia le dimensioni sono contenute e, per essere appunto un grand-opéra, questo «Hamlet» non punta principalmente sulla spettacolarità. Gli strali sul libretto della coppia Barbier & Carré, la stessa del «Faust» di Gounod, sono tradizionali ma sbagliati.
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In realtà, i due marpioni agirono con la consumata abilità dei librettisti di successo, inscatolando Shakespeare nella prevista successione di numeri chiusi, sfrondandolo giudiziosamente di scene e personaggi (Polonio, per dire, non compare quasi) e salvando i versi più celebri . L’unico peccato mortale è di essersi inventati un pazzesco happy end. Nel quinto atto, Amleto non muore, ma incontra lo zio fellone al funerale di Ofelia e lo sventra, mentre il popolo lo acclama nuovo Re «du Danemark» (che in francese è maschile) e la Regina viene spedita a espiare in convento, amen.
Naturalmente, i cantanti sono serviti a puntino. Per Ofelia, era disponibile l’usignolo svedese Christine Nilsson, cui Thomas servì una vera scena di pazzia che occupa l’intero quarto atto, come una Lucia postdatata ma al cubo. Gertrude fu cucita addosso a Pauline Lauters-Gueymard, che solo l’anno precedente era stata la prima Eboli; Amleto a un altro reduce della première del «Don Carlos», il carismatico baritono Jean-Baptiste Faure, che ne fece il suo cavallo di battaglia e fu anche ritratto in costume da Prence nientemeno che da Manet (per inciso, Faure fu uno dei primi e più fortunati collezionisti degli impressionisti, fra l’altro primo proprietario del «Déjeuner sur l’herbe»). Date le premesse, l’esito, il 9 marzo 1868 alla salle Le Peletier, fu trionfale.
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Alla morte di Thomas, «Hamlet» aveva raggiunto le 276 repliche all’Opéra, dove rimase in repertorio fino al 1938, e aveva fatto il giro del mondo: a Londra, però, con un finale tragico, perché agli inglesi non sarebbe andato giù un Amleto che non muore.
E la musica? Qui c’è un curioso paradosso. Thomas è come uno chef strepitosamente bravo nei contorni ma più ordinario nel piatto forte. Il suo pollo arrosto è abbastanza banale, le patatine fritte memorabili. Tradotto: il suo «Hamlet» funziona benissimo nelle parti, diciamo così, più decorative: i bellissimi preludi orchestrali, che in poche battute inquadrano subito un’atmosfera, i cori (specie quello a cappella che chiude il primo quadro del primo atto), il brindisi, il grottesco duetto dei becchini, le marce, compresa quella funebre, e anche la pazzia di Ofelia, che non è solo uno sfoggio di vacuo virtuosismo ma possiede una sua forza teatrale.
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Viceversa sono più deboli i grandi momenti, tipo i monologhi dle protagonista, per non parlare delle parti di Laerte e Claudio, che danno ragione a chi accusava Thomas di fare dell’accademia. È una musica fatta di elegantissime «trouvailles» strumentali e ritmiche, come il debutto operistico del sassofono appena inventato da monsieur Sax, che risulta subito più debole quando lo iato fra Shakespeare e Thomas diventa troppo profondo, un abisso. In ogni caso, le tre ore e mezza volano.
Certo, se «Hamlet» dev’essere, bisogna farlo bene. All’Opéra-Comique l’hanno fatto benissimo. Lo spettacolo, per cominciare. L’ambientazione è contemporanea, con un Amleto in sneakers che si aggira fra i cortigiani in smoking in un loft scandinavo dal design pulito e chiaro, una reggia griffata Ikea. Ma la recitazione di tutti è accuratissima. In più, c’è la trovata del cinema.
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La steandicam segue i cantanti sia dietro le quinte, iniziando a riprenderli prima del loro ingresso in sala, sia in scena, con primi piani, appunto, cinematografici. L’idea non è nuova. Inquadrare il Re che si prepara nei camerini e accompagnarlo mentre entra in platea? Già fatto, se qualcuno ricorda «Il viaggio a Reims» di Ronconi, e ormai sono passati più di trent’anni. Però qui si fa un passo di più, come «isolando» dei dettagli e servendoceli su grande schermo: e funziona benissimo.
Dal podio, Louis Langrée dirige con una bella energia e un gusto tipicamente francese per il colore orchestrale. Bene l’Orchestre des Champs-Élysées (la scrittura di Thomas è pericolosa, specie per gli ottoni), benissimo il coro Les éléments. Laërte, Julien Behr, è un tenorino dalla voce fresca e presente, anche se alla recita cui ho assistito io ha stonicchiato la cadenza della sua cavatina, peraltro insulsa. Claudius, Laurent Alvaro, ha una bella voce e una notevole presenza scenica, ma canta maluccio.
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Sono invece ottimi i comprimari, a partire dallo Spettro di Jérôme Varnier, e notevolissimi i protagonisti. Sylvie Brunet-Grupposo ha personalità da vendere e la sua Gertrude ipermelodrammatica e sopra le righe convince. In Ophélie debutta l’attuale stella del canto francese, Sabine Devieilhe. È una coloratura attenta a non bamboleggiare, con centri anche abbastanza sonori e naturalmente tutte le previste bellurie virtuosistiche ci sono, anche se non è scritto da nessuna parte che proprio tutti i sopracuti debbano essere attaccati piano e poi rinforzati. Poi Devieilhe recita bene e insomma è un’Ofelia del tutto convincente.
Se si pensa però alla concretezza allucinata, alla visionarietà realistica e insomma a tutti gli ossimori che realizzava nello stesso personaggio la precedente tenutaria del ruolo, insomma Natalie Dessay, è giocoforza ammettere che non siamo ancora a quegli stratosferici livelli.
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Dominatore della serata, un piramidale Stéphane Degout come Amleto. La sua è, intanto, una lezione di stile. Il canto francese ha le sue regole, nasce sulla parola e resta nella parola: con Degout non se ne perde una, la varietà di colori e di dinamiche è stupefacente, insomma la lectio magistralis di «déclamation lyrique» è servita (e se un paio di acuti suonano un po’ stimbrati, ebbene, diciamolo: chi se ne frega). Eccellente cantante, Degout è poi un attore eccezionale, capace di reggere dei lunghi primi piani con la stessa autorevolezza di una star di Hollywood: un grandissimo artista, di quelli per i quali spellarsi le mani come abbiamo fatto tutti non è solo un dovere, ma un piacere.