Intervista di Giancarlo Dotto a Paolo Rossi per "Diva e Donna" – dicembre 2019
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Dal suo rifugio protetto della Valdarno, Paolo Rossi arriva per quello che è, un uomo amabile e carezzevole, conciliato con il mondo anche quando il mondo si manifesta incomprensibilmente crudele (ne sa più di qualcosa, Pablito). Minimalismo tanto più seducente, il suo, per quanto gli fa da contraltare il boato di trofei, medaglie e titoli sparsi.
A 63 anni, il ragazzo si guarda intorno e trova quello che ama, nulla di più da chiedere alla vita. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena, 10 e 8 anni. Più lontano ma vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie Simonetta nell’82, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale.
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Capitai l’anno dopo a Tokyo e non credevo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostrò umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. Paolo Rossi è così, prendere o lasciare, io prendo. La vita poteva fare di lui un onesto ragioniere o un prete ispirato, ne ha fatto un campione del mondo, un pallone d’oro, ma il suo modo di stare al mondo non è cambiato. L’immagine che più di tutte lo racconta: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a trovarlo, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto.
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“Quanto dura un attimo” (Ed. Mondadori), ottima strenna per tutti ma soprattutto per i tanti che quella notte si sono buttati nelle fontane di tutta Italia, conferma l’atrofia rassicurante del suo ego. Un’autobiografia in terza persona, già questo una rarità, scritta da Federica Cappelletti, moglie e complice, giornalista e scrittrice. La mano femminile c’è tutta nel raccontare un mondo che più maschio non si può. Dal Paolino dei primi gracili dribbling dell’oratorio al celebrato Pablito del Santiago Bernabeu, fino al precocissimo ritiro.
“Quanto dura un attimo”. Titolo molto pertinente. Il tuo era il calcio dell’attimo fuggente. Il passo del tempo rubato nel jazz.
“Fa riferimento a questo. Anticipare l’attimo, il pensiero, l’avversario. Io ero un centroavanti atipico, non avevo il fisico di Cristiano Ronaldo. Dovevo prevalere con la testa prima che col fisico. Quasi tutti i miei gol nascono così”.
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Chi è il signore che sta abbaiando con questo entusiasmo?
“Si chiama Black, un bastardino. Ma noi qui abbiamo uno zoo, dentro e fuori, un pastore maremmano, due pony, le galline…”.
Si dicono cose paradisiache del vostro agriturismo a Poggio Cennina.
“È soprattutto Federica che ci si dedica. Viviamo qua con le due bimbe da undici anni. La qualità della vita è ottima. Non cambierei questo posto con nessun altro al mondo”.
Come ti hanno convinto a raccontarti?
“È stata Federica. Lei il mondiale dell’82 non l’ha vissuto. Era una bambina di dieci anni. I miei racconti l’hanno sempre affascinata e incuriosita. Pensare di farne un libro, ripercorrendo la mia vita, è venuto naturale”.
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Quindici anni di calcio e una storia incandescente, tra abissi e paradisi. A cominciare da quando eri un ragazzo alla Juve. Tre menischi in tre anni. Un record planetario.
“Oggi i menischi sono una sciocchezza, ma allora erano guai seri. Stavi fermo dei mesi. Nonostante ciò ho fatto in tempo a esordire con la Juventus a diciassette anni”.
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La fama era quella del talento fatto di vetro, dunque inaffidabile.
“Mi ero posto un limite. Riuscire a giocare con continuità e capire quello che sarei riuscito a fare. La mia grande fortuna fu andare a Vicenza a vent’anni. Ci ho vissuto più di vent’anni, ho ancora casa lì, in primavera mi daranno la cittadinanza onoraria”.
Marco Tardelli, altro eroe dei mondiali, ha scritto il suo libro con la figlia Sara. Mi raccontava di come l’avesse tormentato per indurlo a raccontare.
“Nel caso nostro è stato il contrario. È stato tutto molto facile. Siamo stati su anche la notte a scriverlo. Federica è una che si butta nelle cose con passione. Senza di lei non l’avrei mai fatto. Ci ha molto aiutato l’enorme archivio storico che tengo qui a casa”.
La passione travolgente per il pallone fino a che l’hai giocato. Oggi fai l’opinionista in Rai. Sbaglio se dico che a guardarlo, il calcio, sembri molto meno coinvolto?
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“Non sbagli. Se è una partita bella partecipo, altrimenti mi annoio. Non sono un appassionato dei dettagli. Prendo appunti per il mio lavoro, ma non sto lì a studiare e ad approfondire maniacalmente. Il calcio oggi non è la mia unica ragione di vita”.
Cosa ti coinvolge oggi?
“La famiglia su tutto. Prima viaggiavo spesso, oggi ho rallentato per stare con loro. Agriturismo a parte, faccio tante cose. Mi restano la scuola calcio e la mostra itinerante che gira per l’Italia da tre anni con tutti i miei cimeli. Aggiungi la collaborazione anche affettiva con il Vicenza calcio e l’attività vinicola che ho con mio figlio”.
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L’idea di fare l’allenatore ti ha mai sfiorato?
“Mai. Non sono caratterialmente portato. Fare l’allenatore oggi è un mestiere totalizzante. Dover gestire più di venti professionisti a certi livelli, bisogna essere molto duri dentro e fuori”.
Mourinho è il prototipo dei duri.
“Gli allenatori di oggi, i più grandi, li vedo tutti arrabbiati, nervosi o molto pensierosi, se non depressi. Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”.
Ti ha impressionato la storia di Ancelotti a Napoli?
“Mi dispiace per lui, Carlo è un amico. Ecco, lui è un’eccezione. Pacato, corretto, sempre equilibrato, anche nei frangenti più duri. Resta la sua carriera straordinaria”.
Che padre sei?
“Molto affettuoso. Avere due bambine a più di cinquant’anni vuol dire molto. Hai più gioia, più consapevolezza, più attenzioni. Con Alessandro, sei mesi l’anno li vivevo lontano da casa”.
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Hai avuto tre grandi padri putativi. Bearzot su tutti, Fabbri e il presidente Farina.
“Fabbri è stato il primo. L’allenatore che più mi ha seguito e insegnato. L’ho vissuto come un papà. A Vicenza, con lui, era una gioia allenarmi. Il presidente Farina vedeva i giocatori come un business, ma su di me ha mollato. “Sei l’unico giocatore che ho amato”, mi ha detto”.
Dimmi di Enzo Bearzot. C’eri anche tu il giorno del suo funerale, con Zoff, Cabrini, Tardelli e Conti, a portare il feretro sulle spalle.
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“Bearzot aveva un carattere spigoloso, per niente facile. Entrava a gamba tesa quando doveva. Le cose non te le mandava a dire. Ma era un uomo di una lealtà assoluta. Prima dei mondiali ’86 mi chiamò e mi disse: “Ti porto con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”.
Ti è stato molto vicino anche nella vicenda del calcio scommesse.
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“Ha voluto sapere da me tutta la storia, guardarmi negli occhi e avere la conferma che non c’entrassi niente. Avesse avuto il minimo dubbio non mi avrebbe chiamato per i mondiali. Per lui le doti morali erano più importanti di quelle tecniche”.
Eri il suo preferito?
“Lui non aveva preferenze, difendeva tutti. Forse, in cuor suo, aveva un legame speciale con Zoff. Avevano le stesse radici, la stessa estrazione”.
Hai smesso giovanissimo. Poco più che trentenne.
“I danni alle ginocchia erano una storia che mi portavo dietro da ragazzo. Ancora oggi mi fanno malissimo, non ce la faccio nemmeno a corricchiare. Oggi il calcio è completamente cambiato. Penso a Ibrahimovic trentotto anni, Ronaldo trentacinque. Sono ancora dei ragazzi...”.
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Di quel gruppo mitico è mancato anche Gaetano Scirea.
“Tutto il bene che puoi dire di lui è sempre troppo poco. Era un modello per tutti. Un grande giocatore e un ragazzo buono che si faceva voler bene da tutti. Mai una parola di troppo”.
Una persona esemplare e una fine atroce. Storie così non fanno vacillare la tua fede?
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“I dubbi ti vengono, ma resto convinto che dopo questa vita ce ne sia un’altra. Diamoci una speranza, altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo? E comunque, la chiesa e la fede mi danno tutt’ora un senso di tranquillità”.
Tua mamma Amelia, tuo fratello Rossano in tribuna quella sera della finale al Santiago Bernabeu, vicini a Sandro Pertini. Non c’era tuo padre Vittorio.
“Me li portò a Madrid il sindaco di Prato. Papà rimase a casa, a guardarla in televisione. Non si fidava degli aerei. Ho avuto due genitori meravigliosi, mai ingombranti. Mio padre, soprattutto, era molto riservato. Amava il calcio, ma non è mai entrato nelle mie vicende”.
La vicenda della squalifica. Due anni fuori dal calcio. Hai rischiato la depressione?
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“Mai. Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi ha salvato avere la coscienza pulita. Mi hanno tolto due anni di vita, ma poi sono stato ripagato con gli interessi”.
Torniamo indietro. A quel giorno. Stavi in ritiro con il Perugia…
“Viene da me un compagno e mi fa: ti presento un signore. Questo mi dice: i giocatori dell’Avellino sarebbero d’accordo sul pareggio e tu potresti fare uno o due gol”.
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E tu?
“Risposi che io da solo non sarei in grado di fare niente. Il tutto durò un minuto, questo è stato il mio contatto. La sera parlammo e nessuno della squadra era d’accordo. Io feci due gol, pareggiammo, ma fu una partita normale. Mai saputo che c’era questo giro di scommesse dietro”.
Avresti potuto segnalare il tentativo di combine…
“Avrei dovuto denunciare il mio compagno. Non è nella mia indole. La beffa vuole che riprendo a giocare per il mondiale, lo vinciamo grazie anche ai miei gol e vengono condonate le squalifiche di tutti gli altri”.
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La tua amicizia con Antonio Cabrini. Ci hanno ricamato sopra all’epoca. Allusioni pesanti di omosessualità.
“Con Antonio ci conoscevamo da sempre. Ai mondiali stavamo in stanza insieme, quel giorno ci affacciamo sul davanzale e ci scattano una foto. Fanno un pezzo ironico su di noi, Pablito l’hombre e Cabrini la muchacha. I giornali stranieri riprendono la cosa e ne fanno un gossip mondiale”.
Giornalisti felloni. Il destino vuole che ti sposi poi proprio una giornalista.
“Ho sposato una donna bella e intelligente che con il calcio c’entra poco. Oggi, poi, si occupa d’altro”.
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Mick Jagger in concerto a Torino nell’82 che si presenta con la maglia numero 20 di Paolo Rossi.
“Fantastico. Ha pure indovinato il risultato della finale. “Stasera vincete 3 a 1”. Un mito”.
Il più forte con cui hai giocato?
“Ho avuto la fortuna di giocare con Michel Platinì, il più bravo di tutti. Tra gli avversari, Maradona il più grande, dopo di lui Zico”.
Il tuo cordone ombelicale è ancora seppellito nel giardino di casa?
“Penso di sì. Era usanza fare così nelle famiglie vecchio stampo. Venivano i miei fans all’epoca a chiedere di averlo come cimelio”.
Si parla poco di donne nel libro.
“La parte del leone all’epoca la facevano Antonio Cabrini e Marco Tardelli”.
Si parla poco anche della tua prima moglie, Simonetta. Fai capire che il matrimonio fu quasi imposto dalla Juventus.
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“Imposto no, suggerito e forse anticipato. Magari l’avrei fatto l’anno dopo”.
Era vero amore o un calesse?
“Poi si è rivelato un calesse. Sai, eravamo così giovani, però siamo rimasti in buoni rapporti”.
Cosa ti lega a Federica?
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“L’amore che resta intatto dopo quindici anni. Penso di aver fatto la scelta giusta. Stiamo davvero bene insieme”.
Tardelli nel suo libro scrive che eri il più taccagno del gruppo.
“È bugiardo. Mi sa che lo querelo. Quando stiamo insieme sono sempre io a offrire. La storia nasce dal fatto che mangiavo le caramelle e lui sosteneva che le scartavo in tasca per non dividerle. Marco ha mentito, ma gli voglio bene lo stesso”.
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