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Gaia Piccardi per www.corriere.it
Se papà Ambrose avesse preso sul serio quella figlia con l’argento vivo addosso che a 8 anni gli annunciava solennemente di voler diventare suora come la zia Loreto, anziché disinnescarla con un sorriso amorevole («All’epoca avevamo l’abitudine di passare almeno una settimana all’anno a Roma con lei in convitto, travolgevo la zia di domande sui grandi temi della vita e lei sapeva rispondere a tutto: i riti della comunità religiosa mi affascinavano»), Paola Ogechi Egonu, veneta di Cittadella, genitori nigeriani emigrati in Italia da Lagos e Benin City, non sarebbe mai diventata alla strepitosa velocità di 23 anni, 193 centimetri d’altezza e 3,44 metri di elevazione la pallavolista più irresistibile dell’orbe terracqueo. Una vocazione in meno per la Chiesa, una schiacciata in più per il Paese.
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Martello dell’Italia campione d’Europa dopo un’Olimpiade finita a pesci e social in faccia, capace di sbalzi d’umore come nemmeno il barometro con la bassa pressione (la mattina al risveglio, pare di capire, è il passaggio più delicato), talento pallavolistico da vendere, fluida in amore («Ho ammesso di amare una donna — e lo ridirei, non mi sono mai pentita — e tutti a dire: ecco, la Egonu è lesbica. No, non funziona così.
Mi ero innamorata di una collega ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo o di un’altra donna. Non ho niente da nascondere però di base sono fatti miei» ha detto al Corriere) e rocciosa in campo, la signorina Egonu è un hellzapoppin di sentimenti, emozioni, look, alti e bassi difficile da contenere dentro le righe di un’intervista. Ma vale sempre la pena provarci.
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Paola che momento è della sua vita?
«Bello».
La guerra non la turba?
«Occupa i miei pensieri, certo, con le compagne di squadra di Conegliano ne parliamo. Soprattutto mi scervello per provare a capire perché. Poi però ti rendi conto che è tutta politica e allora non sai più a chi, e cosa, credere. Ma il dispiacere per chi soffre resta, ed è enorme».
Come si informa?
«Leggo i giornali. Parlo con le giocatrici russe e ucraine. Loro sono una buona fonte ma per sapere tutto dovresti essere lì, in Ucraina, sotto i bombardamenti. Non credo mai alla prima cosa che mi viene detta. E la verità è irraggiungibile. Questo sì che mi turba. Vivo con il dubbio».
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Ha scritto un libro per ragazzi, «18 segreti per diventare stelle». La dedica è al nonno che le ha insegnato a sognare. Perché proprio a lui?
«Ambrogio papà di Ambrose, il nonno paterno. È venuto a mancare in Nigeria a 94 anni subito dopo l’Olimpiade di Tokyo, in un momento per me già difficile per tutte le critiche che abbiamo ricevuto per la sconfitta nei quarti. Non sono potuta andare al funerale e ho voluto dirgli grazie così, con la dedica».
In che modo le ha insegnato a sognare?
«Con la luce che aveva negli occhi: puro amore che veniva dal cuore. Era uno sportivo anche lui, capiva di volley. Faceva il tifo per me da lontano, però non gli piacevano i pantaloncini corti che indosso in campo. “Paola sono troppo corti!”, protestava. E io: “Ma nonno, guarda che prima si giocava in body, è molto meglio così”. E allora si metteva tranquillo».
Famiglia numerosa, la sua.
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«I cugini li ho contati di recente: sono arrivata a 18. Gli zii e le zie, inclusa Loreto, sono 13. I miei punti di riferimento, senza nulla togliere a papà Ambrose e al mio fratellino Andrea, sono mamma Eunice e mia sorella Angela. Ci sono discorsi che faccio solo con loro perché solo loro due possono capire».
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È più suo padre o sua madre?
«Sono alta, longilinea, forte come lui. Anche di viso, gli somiglio moltissimo. Vorrei avere la sua compostezza nei momenti difficili, la dote di non perdere mai la lucidità. E invece, emotivamente, sono tutta mamma: ho ereditato il suo lato sentimentale, l’empatia, la lacrima facile. E poi io non riuscirei mai a tenermi tutto dentro, come papà».
I suoi le hanno raccontato come si sono conosciuti in Italia?
«È una storia divertente. Dunque, sono nella zona di Parma, dove lavorano. Si frequentano e va tutto bene. Poi un giorno litigano, mamma lo lascia e va a vivere da un’amica. Papà la cerca ma quando la trova si accorge che sulla scena è comparso un altro tizio. Un nuovo corteggiatore! Davanti a una scenata di gelosia, mia mamma si è convinta che mio papà teneva davvero alla loro storia».
Ogni 25 dicembre piango, scrive.
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«I miei oggi vivono in Inghilterra e mi mancano da morire. Il campionato di volley non ha mai soste natalizie, quindi per me è impossibile raggiungerli. Supplisco con i Lualdi, la famiglia della mia migliore amica Giuditta: tutte le feste le passo con loro, mi tirano su quando sono in preda alla nostalgia. È la mia seconda famiglia. Giuditta l’ho conosciuta in un bar di Milano, quando giocavo nel Club Italia: a me piaceva la sua compagnia, a lei la mia. Da allora non ci siamo più perse».
Se lei dovesse descrivere la sua vita a un alieno, Paola, cosa gli racconterebbe?
«Che vivo sull’ottovolante, che la mia giornata di relax ideale è orizzontale, a letto. Caffè tra le lenzuola, serie tv a raffica, Tik Tok, video buffi, telefonate ai miei e alle amiche. Che in me convivono due anime, italiana e africana, e di ciascuna di esse mi piace tutto. E che in campo mi porto dietro tutta me stessa, nel bene e nel male. A volte mi dico che vorrei essere normale, ma normale è noioso. Mi accetto così, sempre in viaggio sulle montagne russe».
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Finito il terzo campionato con Conegliano, avendo vinto tutto con il club, è arrivato il momento di un’esperienza all’estero.
«Sì. Lo stimolo, forte, c’è».
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Quanto contano i soldi, nello stimolo, le offerte milionarie che le sono arrivate da (almeno) due club di Istanbul?
«Poco. Mi è capitato di rifiutare cifre importanti: quando devo prendere una decisione l’assegno è l’ultima cosa che vado a considerare. Sono più interessata alla crescita legata al cambiamento, a uscire dalla mia zona di comfort».
In un’intervista al «Corriere» dopo l’Olimpiade e l’Europeo, aveva parlato dei suoi attacchi di panico. È una fase superata o si sono ripresentati?
«Ne ho avuti altri, con conseguenze ancora più forti sul mio corpo. Episodi sempre legati al campo, all’allenamento o alla partita. La testa vede improvvisamente nero, il pensiero negativo ti spinge giù, ti... ammazza. Quando mi succede, mi spavento: mi piace mantenere il controllo e invece non sono più lucida. Dopo, passata la crisi, mi aiuta avere qualcuno che mi ascolta, che sa come sono fatta e che accetta le mie follie».
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Per essere felici, quindi, non basta aver trasformato in lavoro la passione più grande?
«Ascoltare se stessi aiuta. Nessuno te lo insegna a scuola, ma è molto utile. Come sto? A volte me lo chiedo cento volte al giorno, la mattina è un momento sempre delicato. Paola come va? Eh, sono presa un po’ male. Una volta mi arrabbiavo, adesso respiro: vabbé, oggi va così...».
L’odio social le cambia l’umore?
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«Non più. Gli haters li blocco, inutile perdere tempo a ragionarci».
Le fa più male che scrivano che non è una brava pallavolista o che non è italiana?
«La cosa più fastidiosa è quando si dimenticano che sono un essere umano. Ricordo la frustrazione di un genitore che non aveva avuto un autografo per la figlia: sei una stronza, scrisse su Instagram. No, mi dispiace, stronza non sono: sei tu che ignori i ritmi e le esigenze della vita di una professionista dello sport. Quel giorno, dopo la partita, io di autografi ne avevo firmati cento. Al resto sono abituata».
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Allude agli episodi di razzismo? Nel libro ne cita due: i genitori di una rivale che la insultano, 14enne, durante un match, e un compagno che a scuola, in una discussione, le dice: voi stranieri non dovete stare in Italia.
«È da un bel po’ che queste cose non mi succedono più, per fortuna. Ma l’Italia non è un Paese razzista, di persone cattive in giro ce ne sono poche. A volte noto ignoranza, che è diverso, e un po’ di superficialità».
Studia Psicoeconomia. Di cosa si tratta?
«Esami in presenza a Padova pochini, però ci tengo ad arrivare in fondo. Studio i consumatori finali di un prodotto, per esempio. È un corso in Economia, ma con aspetti umani. Dopo il volley mi piacerebbe trovare un lavoro nel mondo della moda, di cui amo tutto: le sfilate, il signor Armani, gli outfit strampalati che nessuno indosserebbe, tranne me».
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C’è un amore?
«Sono tranquilla e aperta. Curiosa di nuove esperienze».
Quindi una persona non c’è.
«No. Ci sono i miei cagnolini, Noir e Pinot».
Racconta di essere rimasta molto colpita dal discorso finale del padre professore al figlio Timothée Chalamet in «Chiamami col tuo nome», il film di Luca Guadagnino candidato a quattro premi Oscar nel 2018. Perché?
«Per il modo in cui gli consiglia di viversi il sentimento per lo studente tornato negli Usa per sposare l’ex fidanzata. È un discorso di grande accettazione, pieno d’amore».
Lo stesso che si è sentita fare da suo padre?
«Non subito ma a un certo punto sì, è successo anche nella mia famiglia. Quando ci si sente diversi si tende a nascondersi, a non dire, non se ne parla. Nel film invece il padre ha capito tutto, ha assistito all’attrazione tra il figlio e il suo studente senza intromettersi e alla fine gli fa capire che sa e non giudica. Bellissimo. Ogni volta che lo rivedo, piango».
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Francesca Piccinini si è ritirata a 40 anni. Immagina una carriera altrettanto lunga, Paola?
«Assolutamente no. Non c’è niente di sbagliato nella longevità ma non è la mia storia: ci sono troppe cose da fare nella vita perché io corra il rischio di giocare a volley per altri vent’anni».
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