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    PAOLO ROSSI CONTRO TUTTI: “SALVINI? È PERICOLOSO, CREDO NELLA LEGGE DEL RITORNO. HA PRESO VOTI CHE SONO ANCHE XENOFOBI E RAZZISTI. MAI PRENDERE SOTTOGAMBA CERTE AVVISAGLIE – CON IL M5S HO AVUTO UNA SCAPPATELLA, FINITA DI BOTTO. GRILLO? NON SI PUÒ ESSERE ALLO STESSO TEMPO SALTIMBANCO E LEADER, HA SCAVALCATO LO STECCATO DIVENTANDO UN PREDICATORE, POI È DIVENTATO…”


     
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    Antonello Piroso per “la Verità”

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    11 Luglio 1982. Italia campione del mondo di calcio. Paolo Rossi capocannoniere.

    Due giovani sono fermati in auto da una pattuglia dell' Arma: «Documenti». Il guidatore fornisce la patente, i due carabinieri guardano il nome e uno dei due fa: «Paolo Rossi? (pausa) Fratello?».

     

    L' aneddoto, vero? falso? ha sempre fatto venire giù il teatro dalle risate. Anche perché Paolo Rossi, classe 1953 da Monfalcone, in quel di Gorizia, ci metteva poi il carico da undici: «Se ci sono carabinieri in sala, a loro la battuta la spiego dopo».

     

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    È morto Charles Aznavour, che cantava «Com' è triste Venezia». Lei chiosava perfido: «Perché non ha ancora visto Monfalcone».

    «La battuta è di Dario Fo, me la regalò sostenendo che, essendoci io nato, detta da me suonava meglio».

     

    Un artista che riconosce il copyright altrui. Chapeau.

    «Come dico sempre: copiare è da coglioni, rubare è geniale».

     

    Ma questa è di Picasso!

    «Fo me la ripeteva spesso. Poi ho scoperto che l' aveva rubata a Picasso. Ma visto che sono morti entrambi, la spaccio per mia».

     

    Dario Fo. Per lei un maestro. Con Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Giorgio Strehler.

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    «Con Dario iniziai nel novembre 1978, 40 anni fa. Teatro Ponchielli di Cremona, l' Histoire du soldat di Igor Stravinskij, direzione di Claudio Abbado, regia di Fo. Come perito chimico ero destinato a finire allo stabilimento Solvay, come mio padre e mio nonno, ma ero più attratto dal palcoscenico. Di Fo riproposi il Mistero Buffo nella versione 2.0».

     

    Quella in cui diceva di essere stato campione provinciale di catechismo ma di aver perso le regionali non capendo perché san Paolo avesse scritto tutte quelle lettere ai Corinzi?

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    «No. Persi perché mi chiesi: come czz è che i Corinzi non gli hanno mai risposto?».

     

    Con Strehler le affinità elettive erano geografiche: era triestino.

    «Quando andavo a bottega al Piccolo Teatro, mi teneva in riga ricordandomi che io ero un "bisiacco". I bisiacchi erano quelli che parlavano un italiano stentato e spurio, un dialetto che mischia veneto e friulano. Dal latino bis aquae, visto che si parla della zona tra i fiumi Timavo e Isonzo. Stessa etimologia di bislacco, che però avrebbe ascendenze forse anche slovene o croate, da beziak, stupidotto».

     

    L' erudita lezione conferma la sua solida preparazione, che le consente di spaziare dalla satira dell' attualità alla commedia dell' arte, tra Shakespeare, l' amatissimo Moliere, Bertolt Brecht. E Philip Dick, scrittore di fantascienza che tutti conosco per il film Blade Runner, tratto da un suo romanzo.

    «Che non si chiamava così, bensì Ma gli androidi sognano pecore elettriche? Lei si riferisce al titolo che ho ripreso per un mio spettacolo da un altro suo volume, Confessioni di un artista di merda, che è diventato Confessioni di un cabarettista di m. Sa, andando in onda su Sky non si poteva esagerare...».

     

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    Un tema che le è caro è quello del rapporto tra autorità e repressione, lo affronta anche in Il re anarchico e i fuorilegge di Versailles, alla Sala Umberto di Roma fino al 28 ottobre, poi ancora in tour per la penisola. Una nuova esplorazione dell' universo Moliere.

    «Moliere recitava a Versailles, i bersagli dei suoi strali erano gli aristocratici suoi spettatori. Scagliandosi contro la corte, doveva fronteggiarne l' ostilità. Non era Luigi XIV che voleva censurarlo. Erano i nobili. Sono da sempre interessato al conflitto tra potere e teatro, tra autorità costituita e "fuorilegge"».

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    Ma il sovrano che concede al buffone di irriderlo non conferma così ulteriormente la sua forza, verniciata di generoso mecenatismo?

    «Buffone e comico non sono la stessa cosa. A partire dai clown, che spaventano e quindi fanno ridere i bambini, la comicità consiste nel modificare a sorpresa, con uno scatto violento, il punto di vista comune. La prima regola di chi fa satira politica dovrebbe essere quella di non frequentare i luoghi del potere. Il giullare irride, ma il re è complice, non vittima. Invece è bene che il comico resti separato dal re».

     

    Beppe Grillo ha attraversato il confine.

    «Io penso non si possa essere al contempo saltimbanco e leader. Grillo ha cercato di annullare la distinzione. In realtà è passato dall' altra parte, quella del potere. Ha scavalcato lo steccato, diventando prima un predicatore.

     

    BEPPE GRILLO CON LA MANINA BEPPE GRILLO CON LA MANINA

    Quando il suo bersaglio erano malcostumi e vizi degli italiani, aveva tanti registri diversi. Poi quando ha piegato la satira a una missione, ha adottato un tono solo, è diventato monocromo. Urlando. Cosa di cui la comicità non necessita, perché è di per sé violenta, se efficace e corrosiva».

     

    La Rai l' ha censurata. Con il direttore di Rai 1, Fabrizio Del Noce, berlusconiano, e con quello di Rai 2, Massimo Ferrario, leghista. Ma non ricordo suoi pianti o esternazioni da martire.

    «Non è nel mio carattere. E poi dicevo ai miei: è tutta pubblicità, avremo la fila ai botteghini. E andava proprio così».

     

    Mi era parso lei avesse subito il fascino del Movimento 5 stelle.

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    «Una scappatella, un anno e mezzo prima delle ultime elezioni, finita di botto, io che tornavo a casa mia, lui alla sua. Sono troppo refrattario all' idea di un partito, o di un movimento che tale è diventato, per sentirmene suggestionato e attratto nella sua orbita oltre un ragionevole lasso di tempo. Per me è fondamentale l' indipendenza del mio mestiere, incompatibile con l' appartenenza rigida».

     

    Parla così perché lei ha provato a fare politica e le ha andata male?

    «Sono stato in lista nel 2010 al Consiglio regionale della Lombardia per la Federazione della sinistra come favore a un amico, Vittorio Agnoletto. Comunque, il giorno del voto sono rimasto a casa. Credo di essere l' unico candidato che non si è votato».

     

    Un irrimediabile bastian contrario che però è stato comunista.

    «Un' altra sbandata. Da cui mi ripresi grazie a Remo, anarchico ferrarese duro e puro. Aveva fatto la guerra di Spagna. Dopo essermi trasferito a Milano, gli dico: "Non sono più anarchico, sto con i comunisti, sono più organizzati". Lui mi risponde: "Tra 20 anni il partito comunista non ci sarà più, noi anarchici sì". Nel 1992, dopo la "morte" del Pci, torno a Ferrara per presentare un mio libro (Si fa presto a dire pirla, ndr), mi viene incontro sornione: "Visto?"».

     

    In sala c' è un attimo di sbandamento quando con la band intonate Bella ciao con l' arrangiamento degli 883.

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    «L' intento ovviamente non è dileggiare Bella ciao, ma la sua riproposizione meccanica, stanca, liturgica, che ne fa un dogma. Io vengo da una terra di frontiera, multietnica e multiculturale, in cui imparavi - ascoltando le vicende vissute dalle persone sulla propria pelle - che non c' era solo una campana.

     

    Coltivavi il dubbio. Poi uno faceva le sue scelte, ma grazie a quelle radici ho imparato che nella storia spesso le cose non sono come sembrano. E poi aggiunga Lucio Battisti».

     

    Aggiungiamolo.

    «Era considerato di destra, quindi nell' area che frequentavo in gioventù era tabù ascoltare le sue canzoni, che io invece conoscevo a memoria. Ho realizzato il cortocircuito del clima di quegli anni quando ho incontrato uno di destra che aveva il problema speculare: adorava Francesco Guccini e Fabrizio De André, ma non poteva confessarlo. Capisce l' assurdità delle chiese ideologiche?».

     

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    In quegli anni le sarà pesato il passato di suo padre: volontario fascista nella Repubblica sociale italiana.

    «No, perché nella cornice multideologica di cui le dicevo, nelle riunioni di famiglia i grandi eventi della Storia si stemperavano nel ricordo individuale.

     

    Quindi anche il passato nella brigata Mussolini di mio padre veniva affrontato e raccontato senza tabù, ben prima che la politica, per calcolo anche da sinistra, sdoganasse gli ex ragazzi di Salò. Per questo in fondo sono in debito con i serbi e anche con il defunto Movimento sociale».

     

    Questa me la deve proprio spiegare.

    «Mio padre scrisse un libro nel 2001, titolo: Prigioniero di Tito. Narrava la sua deportazione, la confusione di ruoli tra buoni e cattivi, e di come, quando uno sloveno stava per sparargli, fu salvato da un serbo che si mise in mezzo con la pistola spianata. Quanto al Msi, i miei si sono conosciuti in una sezione di quel partito, veda lei».

     

    Biografia spiazzante, la sua, tanto più se confrontata con la sua satira fortemente abrasiva nei confronti di Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi.

    DI MAIO SALVINI DI MAIO SALVINI

    «Attacco il potente quando ha potere. Quando lo perde, e torna ad essere una persona normale, non m' interessa più bersagliarlo. Con Berlusconi poi ho smesso da quando, come collega, mi aveva messo in crisi. Come comico un po' mi manca».

     

    Politicamente è stato surclassato da Matteo Renzi e poi da Matteo Salvini.

    «Renzi è un altro che cerca le battute ad effetto, ma spesso risultano un po' "telefonate", lo tradisce la mimica facciale, assume l' espressione di uno che ti avverte, "occhio, sto per dire una cosa esilarante", ma, ammesso che sia tale, anticipandola la depotenzia».

    Salvini?

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    «Lo giudico pericoloso. Credo molto nella legge del ritorno. Non è paranoia anche se i paranoici a volte ci prendono.

     

    Ha preso voti che sono anche xenofobi e razzisti. Mai prendere sottogamba certe avvisaglie. Nel film La nave dei folli, costretta a fare ritorno in Germania, un ebreo dice a un altro: "Ho paura dei nazisti".

     

    "Ma va', son quattro pirla, noi siamo milioni. Cosa vuoi che succeda? Non possono mica ucciderci tutti". E difatti».

     

    Atroce calembour.

    MATTEO SALVINI A FIERACAVALLI MATTEO SALVINI A FIERACAVALLI

    «Fa il paio con quella dei due ragazzi che vanno al G8 di Genova nel 2001. La sera al telefono, per rassicurare le famiglie, dicono: "Tranquilli, stanotte dormiamo in una scuola". Era la Diaz. La realtà spesso s' incarica di essere molto più creativa, e terribile, della fantasia».

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