Francesco Borgonovo per “La Verità”
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I giornali italiani sono soliti descrivere il populismo come una malattia. Un morbo pestilenziale che s'insinua nelle menti più semplici e sprovvedute per avvelenarle, trasformando uomini altrimenti pacifici in belve razziste e xenofobe. In proposito abbiamo udito ogni genere di leggenda: c'è chi ha scritto che i populisti sono come i terroristi islamici, chi sostiene che minaccino la democrazia e il vivere civile, chi li ritiene semplicemente gentaglia da rieducare.
Il coro è sostanzialmente unanime, l' eco rimbalza da destra come da sinistra, e cela sempre un' ingiuria, un giudizio negativo. La parola «populista» è divenuta sinonimo di «demagogo». Come ha notato il politologo francese Pierre-André Taguieff, «con ciò si suppone che al "buon" uso del popolo da parte dei democratici "autentici" si contrapponga un "cattivo" uso del popolo da parte dei "falsi" democratici che sono dei veri demagoghi».
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Il populista dei tempi nostri, insomma, è un cattivone che cova ambizioni autoritarie, un arruffapopoli che fa strame della democrazia sfruttando i bassi istinti, uno che finge di rappresentare il popolo ma fomenta il popolino.
QUALCOSA NON TORNA
Eppure, in questo ragionamento ormai universalmente diffuso, c'è un inghippo. C' è qualcosa che non torna. Se i populisti sono così bestie e così perfidi, perché c' è un populista fatto e finito che viene celebrato a reti unificate? Di più: che viene incensato dai giornali e citato come un esempio dai politici di ogni ordine e grado? Mistero (ma nemmeno tanto).
Il populista in questione è un signore di nome Jorge Mario Bergoglio, cioè papa Francesco. La sua recente visita a Milano e Monza si è rivelata un successo strepitoso, e tutti i media l'hanno descritta così, dando risalto a questo o a quell' altro passaggio degli interventi del pontefice.
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Eppure proprio quella visita ha fatto emergere il lato più decisamente populista di Francesco: ha scelto di presentarsi in una cosiddetta «periferia»; è entrato in un carcere per parlare ai detenuti; ha addirittura utilizzato un bagno chimico come un fedele qualsiasi. Insomma, ha mandato un messaggio di appartenenza, ha voluto appunto mostrarsi come un «uomo del popolo». Questa, del resto, è la sua enorme forza.
Anche chi ne critica le posizioni deve ammetterlo: Bergoglio ha saputo stabilire un legame empatico con la popolazione, anche e soprattutto con i non credenti e i fedeli tiepidi.
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E lo ha fatto proprio attraverso gli strumenti del populismo. Non si tratta, attenzione, di una scelta casuale. Bergoglio conosce molto bene il populismo, perché lo ha praticato e frequentato anche prima di diventare papa. Non per nulla viene dall'Argentina, la terra del peronismo. Nei richiami del pontefice alla «Madre Terra» violentata dal dio denaro si trovano tracce dell' attenzione peronista verso «el campo», la campagna.
Ma ci sono pure interessanti legami con il pensiero del People's party americano, ovvero il movimento attivo negli ultimi anni dell' Ottocento da cui deriva l'idea stessa di populismo. Il People' s party rappresentava soprattutto i lavoratori della terra, i braccianti. «Le nostre case sono coperte di ipoteche», ripeteva l' oratore populista Ignatius Donnelly nel 1892, «i lavoratori sono in miseria e la terra è concentrata nelle mani dei capitalisti».
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Sono argomenti che verranno ripresi anni dopo da un populista fervente come John Steinbeck, che ai braccianti raccontati in Furore faceva dire: «Questa terra è nostra [...]. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo anche morti. [...] Ecco che cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci».
Questo è il cuore del populismo, che nelle parole di Christopher Lasch diventava «la voce autentica della democrazia». Negli scritti di Bergoglio, in particolare l'enciclica Laudato si', si trova una critica piuttosto ruvida dell'agricoltura produttivista, un'attenzione intensa verso i problemi dell'ambiente e dell'ecologia che ha entusiasmato persino il guru della decrescita Serge Latouche. In alcuni passaggi sembra intuirsi la presenza di Jacques Ellul, teologo molto amato dai populisti (di cui sono particolarmente decise le posizioni sull'islam, fra l' altro...).
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I MOVIMENTI
«Francesco può a tutti gli effetti essere definito un papa populista, se si usa il termine come strumento analitico e non nel senso negativo a cui siamo abituati», ha spiegato a Pagina 99 Loris Zanatta, studioso di storia dell'America latina. «Il suo popolo non è però quello della tradizione illuminista, ma è il popolo della tradizione latinoamericana di cui il peronismo è stato il più tipico caso: una comunità organica, riflesso della volontà divina.
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Una sorta di "popolo mitico", come lo ha definito il papa». Un popolo che ha un'anima, anche se menti della sinistra come Michele Serra - che pure lodano il papa - sostengono che «il popolo non esiste». Questa idea avvicina addirittura il pontefice a Donald Trump, come ha spiegato ancora Zanatta: «Condividono la critica radicale della globalizzazione, evocano un popolo unito, in armonia, minacciato dalla disgregazione sociale. Evocano un mondo che va a rotoli e promettono una redenzione». Ed è un paradosso, se pensiamo che Bergoglio ha da poco avvicinato il populismo trumpiano al nazismo.
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Già, il papa giudica positivamente il populismo, ma solo quelli dei «movimenti popolari» latinoamericani: «Lì significa che i popoli sono protagonisti», ha detto una volta. In questo senso, egli ha qualcosa in comune con i suoi lodatori progressisti: il popolo è protagonista solo se vota a sinistra.
Allora si capisce perché il populista Bergoglio vada bene e gli altri no: perché non si oppone all' immigrazione, si limita a sfiorare argomenti politicamente scorretti. Quelli che ai populismi sudamericani non interessavano fino in fondo, ma solo perché i popoli di quei luoghi di guai ne avevano altri.