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    "DIEGO NON VEDEVA MESSI COME IL SUO EREDE. ERA CONVINTO CHE SENZA PALLA SI SPEGNESSE" - PARLA STEFANO CECI, L'ULTIMO MANAGER DI DIEGO ARMANDO MARADONA: "INIZIAI A LAVORARE PER LUI NEL 2000, MENTRE ERA A CUBA. DROGATO, ABBANDONATO, BIONDO OSSIGENATO, SENZA SOLDI" - "ERA GIÀ OLTRE QUANDO SE NE È ANDATO, PRENDEVA 20 PASTICCHE AL GIORNO, UN MIX PER OGNI COSA. AVEVA CONSUMATO IL BONUS DI 15 ANNI EXTRA VISSUTI IN PIÙ PERCHÉ ERA LUI" -"NEGLI ULTIMI GIORNI IN UNA CASA 'SQUALLIDA'? QUANDO È MORTO TUTTI A INORRIDIRSI, EPPURE…"


     
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    Giulia Zonca per “la Stampa”

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    Negli ultimi due mondiali, a ogni uscita dell'Argentina, il boato partiva molto prima del fischio di inizio, quando Maradona entrava nello stadio e monopolizzava l'attenzione. Gigante, strabordante, ingombrante, presente. Specchio di una nazione e di una nazionale che in Qatar va in campo senza la sua ombra che si allunga dalla tribuna. Maradona è morto due anni fa, a Doha però c'è l'uomo che ha ricalcato il suo profilo pur di stargli a fianco, l'ultimo manager che lo evoca ancora. In questi giorni consegna a Ronaldo, brasiliano, il piede sinistro del numero 10, lo stesso che porta al collo in miniatura sulla spiaggia B12, vista West Bay.

     

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    Stefano Ceci, napoletano, trapiantato a Catanzaro Lido da dove, da ragazzo, fa il pendolare per vedere il suo idolo ogni domenica, «Prendevo "il romano" il treno dell'alba per poi arrivare a Campi Flegrei». Da tifoso incrocia il Dieci plurime volte, ma diventa il suo tuttofare solo nel 2000, mentre Diego è a Cuba «drogato, abbandonato, biondo ossigenato, senza soldi, andava al campo da golf alle 10 del mattino e ritornava alle tre del pomeriggio del giorno dopo».

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    Conquista una fiducia sempre lunatica e oggi gestisce i diritti dell'immagine di un mito, con plurime cause sostenute dagli eredi. Ceci ha portato la statua di Maradona a Napoli, svelata dal presidente della Fifa Infantino e ora lavora per mettere un calco del piede immortale, un altro, a Scampia. Ma qui porta in giro soprattutto un voluminoso e ingestibile ricordo.

     

    Si è fatto gli stessi tatuaggi, porta i medesimi orecchini, la maglietta dedicata, due orologi ai polsi. Abbastanza maradoniano per essere fermato da ogni argentino che in lui ritrova una eco di quel che gli manca.

     

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    Se tutti ancora lo cercano perché è morto da solo?

    «Come è morto Pantani? Come è morta Marilyn Monroe? Come è morta Amy Winehouse? Maradona era già oltre quando se ne è andato, prendeva 20 pasticche al giorno, un mix per ogni cosa. Aveva consumato il bonus di 15 anni extra vissuti in più perché era lui: straordinario e impossibile».

     

    Però si era rintanato in una casa squallida.

     «Squallida? Era spoglia, banale, ma non gliene fregava più nulla. E il contratto lo ha firmato una delle figlie. Quando è morto tutti a inorridirsi, eppure lo avevano visto tutti dove e come stava».

     

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    Perché i figli contestano il suo ruolo e la gestione dei diritti di immagine?

    «Perché sono cinque da quattro madri diverse e non si mettono d'accordo tra loro sulla percentuale. Non si fidano gli uni degli altri e litigano con me. Vedano loro, il tribunale mi sta dando ragione».

     

    I giocatori che hanno attraversato la sua carriera lo andavano a trovare, tenevano i contatti?

    «No. Da tempo, però nemmeno era facile averci a che fare. Non si faceva trovare, cambiava umore. Le persone si stancavano di inseguirlo e di farsi magari pure maltrattare. Era così, pacchetto completo. Tanto da dare, a prezzi altissimi. E non parlo di soldi, ovvio».

     

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    Gli è rimasto vicino per soldi?

     «Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, Coppola, il precedente agente, stava scappando perché non ne poteva più. Io pur di stargli a fianco ho condiviso ogni esperienza, anche le peggiori. Sono stato pure arrestato, questioni di droga. Ho evitato il carcere perché nella sentenza si dice "dipendente da Maradona". È depositata, con la perizia del medico di Catanzaro Rivalta».

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    È ancora dipendente?

    «Sì, ma ora si può fare qualcosa di buono in suo nome. Senza polemiche. Si dice sempre che i clan lo hanno rovinato, ma Maradona decideva tutto lui: chi lasciare entrare e chi buttare fuori. Forse nel calcio di oggi, globalizzato, ipercontrattualizzato sarebbe cresciuto diversamente. O forse non sarebbe proprio emerso».

     

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     Lo ha accompagnato al Mondiale del 2010, quando era ct dell'Argentina?

     «No. Era così scaramantico che ha voluto intorno solo le persone presenti quando ha vinto le partite di avvicinamento. Però lo ho scortato nel 2014 e nel 2018».

     

    Come ha vissuto la finale persa in Brasile?

    «Ha tifato, tantissimo per la sua Argentina, poi, nella notte, ha quasi festeggiato la mancata Coppa. In un angolo restava contento che la sua vittoria fosse rimasta l'ultima, ma se ne fosse arrivata un'altra l'avrebbe celebrata e basta».

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    Vedeva Messi come erede?

    «No. Ne rispettava l'immenso talento, riconosceva le immense doti però era convinto che senza palla si spegnesse. Non vedeva similitudini».

     

    Sempre rapporti difficili con i campioni: i battibecchi con Platini, il gelo con Pelé.

     «Una volta Pelé lo doveva premiare: gli dà il trofeo e dice: "Dopo di me nessuno è meglio di lui". Diego glielo restituisce: "Si parla di storia e uno solo può essere il più grande". Da lì i dispetti, pure nelle partitelle celebrative, quando Pelé girava già con il bastone, dovevano farli segnare entrambi per evitare liti».

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