Antonio Armano per ilsole24ore.com
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“Dimenticare Voghera? Non è umanamente possibile”. Alberto Arbasino risponde con questa smodata dichiarazione a Giovanni Testori che sul Corriere della sera lo accusa di essere poco provinciale. Cioè di avere dimenticato la città dove è nato e cresciuto per cadere in preda al demone del cosmopolitismo e dell'irrequietezza:
“E perché Arbasino pretende di non lasciarci credere che l'estro, la trafelata bellezza e il trafelato, incipriato sudore della sua scrittura sono tali proprio perché il latte che egli succhiò e il sangue che nelle vene gli capitò, per trapianti che tenti e tradimenti che effettui, sono e restano sgangheratamente e smodatamente vogheresi?”
Secondo Testori Arbasino doveva pacificarsi con quelle origini strapaesane e soprattutto doveva smetterla di voler rimandare l'incontro che nel perenne moto sembrava voler eludere, la sua fuga dal tempo per dirla con qualcun altro.
giovanni testori
Siamo nel 1979. Arbasino non aveva neanche cinquant'anni, godeva di ottima salute, se la spassava da oltre venti a Roma e avrà toccato tutto il ferro e tutti gli attributi a portata di mano nel leggere il lugubre monito a non tradire la terra, il latte e il sangue.
In un'intervista a Camillo Langone per il Foglio molto tempo dopo avrebbe detto che per essere Arbasino bisogna vivere nella capitale o almeno a Milano. Lo stesso ha detto a Testori: i tempi in cui bastava nascere in un qualunque borgo italiano per dettare legge in Europa erano finiti da un pezzo.
Dal Rinascimento l'Italia aveva smesso di essere un paese centrale e restare significava dunque essere doppiamente marginali: come italiani e come provinciali. In fondo, notava rispondendo a Testori, chi non si era mosso da casa che aveva combinato? “Non lo diceva anche Montale? Non è umanamente possibile essere un poeta bulgaro”. Per la serie: se Canetti fosse rimasto a Ruse non avrebbe battuto chiodo, altro che Nobel.
Idem Todorov, ma qui entra in ballo il comunismo a voler prendere sul serio la battuta. Rievoco la polemica tra fantasmi italiani ora che Arbasino è tornato a Voghera dopo l'ineludibile incontro di cui Testori ha parlato con un anticipo di quasi mezzo secolo, in modo così esplicito e pubblico.
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“Passeggiando con Arbasino”
Il botta e risposta si trova in un bel volume intitolato Passeggiando con Arbasino, pubblicato da Ticinum di Elisabetta Balduzzi, casa editrice della omonima libreria vogherese, e curato dallo scrittore Guido Conti, il quale si è trasferito a Voghera da Parma.
Tra i testi inclusi nella raccolta quello del giornalista Gigi Giudice. Giudice ricorda quando Arbasino era ancora per tutti “Nino” e si presentava verso sera in Lambretta per incontrare il fratello, Tino Giudice. Arbasino e Giudice erano amici e quest'ultimo frequentava lingue alla Bocconi ed era l'interlocutore preferito, in riva allo Staffora almeno, il torrente esangue che non passa lontano da quel quartiere dove “quasi tutti votavano Pci”. Voghera era una cittadina vitale in tutti i sensi prima della desertificazione recente e devastante.
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In realtà qualcuno era rimasto e aveva combinato qualcosa. Per esempio Lucio Mastronardi, autore negli anni '60 del feroce ritratto del boom economico: Il calzolaio di Vigevano, Il maestro di Vigevano e Il meridionale di Vigevano. Ma dopo avere combinato ben più di qualcosa si era buttato nel Ticino anticipando il fatale incontro di cui parla Testori.
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Arbasino è stato lo scrittore degli anni '60 intesi come decennio di modernizzazione e crescita, anche in provincia: la MG spider che cambia colore da una edizione all'altra di Fratelli d'Italia (da bianco latte a pervinca...), il meccanico “col cazzo sporco” per La bella di Lodi, le corse sulle nuove autostrade, le soste negli autogrill dove invece Scerbanenco ambientava delitti. Riscrivere è dare la vernice al testo e Arbasino stesso aveva una Porsche sulla quale lascerà quasi la pelle in un incidente.
Sempre Testori aveva parlato del tentato suicidio di Arbasino in seguito alla scoperta delle proprie inclinazioni omosessuali. Tutt'e due venivano da famiglie ricche e alto-borghesi e in vista ma Testori abitava a Novate, nell'hinterland milanese sempre più anonimo cioè sempre più hinterland, non in una cittadina collegata bene con tutto ma isolata in mezzo ai campi e dove la maggior parte degli italiani sono stati solo per una coincidenza ferroviaria sostando senza uscire dalla stazione. Ricordo ancora gli annunci dei treni, poi sostituiti dalla voce computerizzata e robotica, fatti da un impiegato con intonazione pesantemente vogherese e tendente al prognatismo.
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Pur conscio che l'italiano pulito sia la lingua dei doppiatori, meno inquietante è il dialetto, ormai sepolto come lingua madre ma rimasto sotto terra come un'energia che affiora in alcune espressioni elencate da Arbasino ricordando le conversazioni con Gadda (L'ingegnere in blu): termini impagabili e insostituibili come “trasudeciùc” per indicare il color violaceo simile al vomito da ubriaco da vino rigorosamente rosso. In un vasto capitolo di Passeggiando con Arbasino li analizza con passione Angelo Vicini.
Il basso serviva per mischiarlo con l'alto
Allo scrittore il basso serviva per mischiarlo con l'alto, la provincia con la metropoli, la casalinga con la marchesa e viceversa naturalmente (“La viceversa” è stato un significativo soprannome arbasiniano). Senza un estremo non poteva esistere l'altro, anche se sarà stato molto più interessante il secondo tenendo ben presente il primo.
Arbasino voleva essere una specie di incrocio tra Gadda e Capote e nessuno può negare che ci sia riuscito, pur con tutto quello di penalizzante che una simile contaminazione comporta: Colazione da Tiffany con le note a pie' di pagina? Doveva andarsene per diventarlo e ha avuto anche molta fortuna nel ritrovarsi nella Roma della Dolce Vita invece che in quella della Grande Bellezza.
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Per lui la vita artistica romana era l'indefesso lavoro diurno – Arbasino genio e secchione - più incontri serali al caffè; e quando gli scrittori hanno smesso di incontrarsi al caffè e hanno iniziato a stare attaccati al monitor come monadi la letteratura italiana ha iniziato a decadere paurosamente, o smesso proprio di esistere.
Insomma – insùma, si direbbe a Voghera - senza avere passato le sere con Flaiano, Pasolini, Moravia, Penna e Parise e altri non avrebbe fatto quello che ha fatto. “Lasciatemi divertire” scriveva Palazzeschi e non si capisce perché Arbasino dovesse sempre ricevere rimproveri se voleva godersi la vita a Roma e in giro per il mondo trasformandola in articoli e gli articoli in libri. A Voghera come e più di altrove lo rimproveravano di essere frivolo e nella suddetta raccolta non poteva mancare una recensione - per non dire stroncatura - a La vita bassa: Davide Fiammengo, ex compagno di scuola al liceo classico Grattoni.
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Fiammengo gli è grato sì perché se li interrogavano insieme in greco prendeva un voto più alto, trainato dal brillantissimo Nino, ma trova che sia finito per girare a vuoto, scrivendo un “divertissement, in cui ci si perde con la testa per aria”. In altre parole: qualcosa di fine a se stesso. Lo stesso pensava la professoressa Emilia Provenzal, figlia del letterato Dino Provenzal, e docente dei due ragazzi. Anche se non arrivava, come Fiammengo, a consigliargli di “buttarsi sulla Bibbia”. Cosa che Testori del resto ha fatto.
Arbasino diceva di essere nato a Voghera e rinato a Roma. A Milano ha ambientato L'Anonimo lombardo, il primo romanzo, e a Milano ha posato l'ultimo sguardo sulle cose terrene. Da grande signore, vissuto per molti anni con rendite di famiglia e vitalizio da parlamentare, dunque libero di viaggiare e scrivere senza condizionamenti, si è scelto un panorama finale come la basilica di San Lorenzo. In un coccodrillo sul Manifesto – di gran lunga il più bello dei coccodrilli arbasiniani -,
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Giovanni Agosti scrive: “Ci ricordavamo tutti e due che Richard Krautheimer, il massimo conoscitore della Roma medioevale e barocca, la considerava la chiesa più bella dell'Occidente: e Alberto la vedeva ormai tutti i giorni dalle finestre della sua stanza, dal suo balcone. In casa erano già stati fatti i lavori per ricavare dal salotto, con le incisioni di Füssli e di Piranesi, uno spazio per una persona che potesse accudirlo; Stefano infatti era gravemente malato e molto provato da una situazione da anni difficile, tanto da avere deciso di fare abbandonare Roma ad Alberto e di tenerlo con sé a Milano”.
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Stefano era il compagno storico, la cui scomparsa ha accelerato quella di Arbasino: “Stefano il prisonnier degli anni Sessanta – scrive Agosti -, Stefano impeccabile e musone, Stefano con la r, Stefano mangiato con gli occhi in ascensore da Jacqueline Kennedy, Stefano che disegna gli omini intrecciati – quasi dei Keith Haring ante litteram – sulla copertina di Sessanta posizioni: una proiezione di Alberto? O, meglio, una delle grandi storie d'amore dell'altro secolo?” “Caro topo, vecchio topo/ tu non sai cosa vien dopo”: è l'ultima poesia di Rap! e s'intitola “Miao”.
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