Estratto dell’articolo di Dario Di Vico per “il Foglio”
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[…] Quel che sembra però assodato è che l’operaio sindacalizzato e tutelato dalla Cig se ha il figlio cameriere e senza tutele si orienta a destra […] Ciò che terrorizza i ceti produttivi che votano a destra è un tratto caratteristico dell’agenda liberal ovvero la concorrenza, sia essa quella di Uber o delle catene alberghiere che vogliono gestire le spiagge sia quella più palpabile dei minimarket bengalesi o dei superstore cinesi.
Questa non-piazza chiede protezione e l’istanza ha preso dei tratti identitari, si è fatta antropologia e porta le partite Iva ad apprezzare l’ambiguità della destra italiana, la sua capacità di stare al di qua e al di là del “sistema”. […]
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Del tutto differente è invece quella che per comodità chiameremo “l’area Fratoianni”, ovvero la galassia delle formazioni politiche e dei circoli intellettuali che contestano da sinistra il Pd di Palazzo […] questa posizione è che ha pochissimo pescaggio sociale, persino tra gli operai le formazioni a sinistra del Pd messe tutte assieme – secondo gli studi di Nando Pagnoncelli – racimolano circa 4 punti di consenso. Un quinto dei consensi della sola Lega e un sesto della sola Meloni.
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Se un operaio contesta il sindacato per la chiusura della sua fabbrica o per la scarsa attenzione agli appalti si sposta a destra e non verso “l’area Fratoianni”, che appare incapace di fare proseliti persino tra i Cobas. Come mai? Probabilmente perché la sinistra del disagio è legata allo schema ideologico della centralità del conflitto redistributivo e però le manca un retroterra antropologico. Quindi trova più spazio tra gli intellettuali gauchisti e tra i docenti universitari expat negli atenei di mezzo mondo che tra gli operai in carne e ossa.
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Potrà sembrare paradossale ma “l’area Fratoianni” contesta il Pd per gli scarsi legami sociali e poi alla prova dei fatti ne vanta ancora di meno. Non è mai piazza, è tutt’al più tinello. […] Scommette su una redistribuzione contabile e comunque non è presente nei luoghi della vera marginalità. Resta di conseguenza al di qua della dimensione identitaria che anima i conflitti centrali di quest’epoca come il divario città-campagna che caratterizza e determina, dalla Brexit in poi, le prove elettorali di tutti i paesi dell’occidente.
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Una variante della politicizzazione delle diseguaglianze è stata sicuramente rappresentata dai Cinque stelle che avevano la prerogativa e il vantaggio rispetto all’“area Fratoianni” di non provenire dal marxismo, pur nelle sue infinite varianti. E quindi di essere mentalmente sgombri rispetto alla necessità di operare una radicale discontinuità. I grillini si sono imposti sulla scena politica italiana grazie al successo del movimento della critica della politica (“la casta”) e solo successivamente si sono aperti alle questioni sociali realizzando di fatto un’Opa sulla diseguaglianza e chiudendo il ciclo dell’egemonia rossa.
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Da qui la battaglia sul Reddito di cittadinanza, i provvedimenti contro i contratti a termine (il decreto “Dignità”) e la teoria dell’Inps del popolo sostenuta da Pasquale Tridico.
Questo mix di antipolitica e di attenzione alle basse frequenze della società ha funzionato nell’occasione delle elezioni del 2018 ma poi la sua spinta propulsiva si è esaurita e il consenso che i 5s avevano accumulato è stato progressivamente cannibalizzato dalla protesta di destra, rivelatasi più coriacea e dotata di un maggiore retroterra antropologico. Ovvero di un’idea di protezione più antica, più incardinata nelle debolezze del carattere nazionale e quindi decisamente più efficace della retorica comunisteggiante dell’uno vale uno. [...]
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