FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Michele Masneri per il Foglio - Estratti
Era il più schiumoso dei designer italiani. Gaetano Pesce, mancato ieri, era nato sul Tirreno a La Spezia nel 1939, e si era formato sull’Adriatico a Venezia, dove aveva frequentato il glorioso Iuav. A Padova, città d’acqua dolce, aveva poi aderito al Gruppo N, neoavanguardia astrattista dei primi anni ’60.
Nel 1965 manifestava già quell’interesse pratico-poetico per materiali poco ortodossi che l’avrebbe poi distinto: pubblica il Manifesto per un’architettura elastica , indice del suo poi proverbiale sguardo amoroso verso plastica, gomma, resine, soprattutto poliuretano.
Il suo professore Carlo Scarpa lo chiamava appunto “l’uomo di schiuma” perché fu il primo a usare questo materiale mutevole, prima morbido e poi duro. Pare che l’ispirazione gli fosse arrivata sotto la doccia, lavandosi appunto con una spugna. Di lì a passare alla produzione il passo fu breve: il poliuretano lo affascinava per la sua duttilità, e forse per la poesia, fatto com’è all’80 per cento di aria. Da lì nasce il suo prodotto più celebre, la poltrona “Up” creata nel ’69, quella con la “palla al piede”, il pouf cioè collegato al corpo centrale, con un filo, forse manifesto politico innovativo a denuncia d’una donna ancora asservita nonostante gli anni Sessanta quasi conclusi.
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La sperimentazione su materiali e forme lo accomunava ai radicali fiorentini Archizoom, Superstudio, Gruppo 9999 ecc., che dall’interesse verso l’arte avevano deviato presto verso il design, in un detour hippie più californiano che lombardo (foto e happening in mezzo alle campagne, studi e prototipi per vestiti unisex, uomini in gonna che avrebbero fatto inorridire il general Vannacci).
Un dirazzare dal maschio funzionalismo milanese – oggi diremmo patriarcato – dei vari Magistretti, Castiglioni, Zanuso, quasi tutti maschi, a parte la Cini e la Gae, tutti compatti coi loro metalli e cementi. No, Pesce invece si dedica a materiali soft (o duri ma traslucidi e, orrore, colorati), e forse per questo a Milano rimarrà sempre una specie di prestigioso alieno. Sguazza, s’è detto, tra quei ribelli fricchettoni basati a Firenze, dove del resto era nato il made in Italy, e c’era appunto la Dolce vita dei radical designer, anche per le classiche contaminazioni jamesiane tra gentildonne Wasp e gli indigeni artistici (tradizione rinnovata con gli architetti che frequentavano simpatiche americane disinibite, in cima alle colline causa alluvione).
Coi “radicali” partecipa alla leggendaria mostra del MoMA di New York del 1972, Italy. The New Domestic Landscape , che è l’equivalente per il design della copertina di Time con Armani di dieci anni dopo per la moda. Comincia a fare la spola con gli Usa, e non se ne va più. Collabora con Cesare Cassina e Alessandro Mendini, fa sedie e poltrone soprattutto, spesso ispirate alla vita metropolitana come il divano “Tramonto a New York” (1980), ma anche “I Feltri” (1987), seduta che avvolge come un cappotto. “Nelle grandi città si vive sempre tutti insieme, confusi nella folla, e quindi si ha bisogno di isolarsi”, ebbe a dire.
Altro che borghi: nel 1983 si trasferisce definitivamente, nella Grande Mela. Dove diventa poi “Italian design legend”, quel genere di italiano globale alla Francesco Clemente.
In Italia i suoi pezzi sono più facili da trovare a Roma in case estroverse ed eclettiche come il “Muggheneim” del suo amico Giampiero Mughini, che non a Milano tra la cementite e le luci fredde. Il compianto Germano Celant lo aveva ritratto così: “I suoi materiali morbidi, colorati e flessibili arrivano a coagularsi per creare una storia infinita”. Milano lo doveva omaggiare al Salone imminente, ma non c’è stato tempo; l’anno scorso comunque Pesce già aveva troneggiato, alla Design Week, realizzando installazioni per un brand però di moda, Bottega Veneta. Ancora una volta, forse per nemesi o solo per caso, quella consorella del design industriale lo aveva pescato per prima.
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