Aurelio Picca per il Giornale
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Io amo Roma. Non amo quella ragazza bruna che è il sindaco, Virginia Raggi. Amo Roma almeno perché ha avuto la spavalderia di «fare» tutto quello che il resto del mondo non ha fatto. Come quando l' Inghilterra, inventando il football, si esibiva contro le nazionali unificate per continuare a insegnare il tocco di palla, la capacità di corsa, la grinta, la ferocia nel combattimento fino al novantesimo minuto.
Roma nacque da un fratricidio, dallo stupro delle donne sabine. Roma rubò in ogni dove. Ai latini, agli etruschi, ai greci, agli orientali. Perfino «il giogo» (il gioco appunto di umiliare gli sconfitti facendoli inchinare sotto una lancia posta orizzontalmente) che i terribili sanniti usarono contro di lei, quando le milizie furono allo sbando presso le Forche Caudine. Sono scemo a ricordare la Roma remota che fu.
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Ma devo. E poi la amo per la luce della notte; per i quartieri chiusi dentro se stessi come tante cittadelle. Roma la amo perché mi ricorda l' ospedale del Bambino Gesù, il Teatro dei Burattini al Gianicolo, le vie degli antiquari, gli osti dei Castelli Romani... lo stadio Olimpico, l' Eur, il meraviglioso lungomare di Ostia, il fiume sotto ponte Marconi, gli ebrei... Intanto che scrivo mi accorgo che ho usato «mi ricorda». Dunque ho amato una Roma che non c' è più? Non credo che quella Roma sia «sparita» del tutto dentro i migliaia di quadretti oleografici e ottocenteschi che andavano appunto sotto il nome: Roma sparita. Non credo né voglio accettarlo. Sarebbe fiacca nostalgia.
AURELIO PICCA
Impotenza. Morte di una grandezza cristiana e pagana che si respira da secoli. Voglio illudermi che Roma sia caduta in basso - come accadde contro i Volsci, contro Annibale, durante il bombardamento di San Lorenzo nel 1943, negli anni di piombo - soltanto «momentaneamente» (uso apposta questo avverbio docile come le onde del mare di Ostia).
Ma certo è dura perché ora la città di Belli, Petrolini, Amelia Rosselli, Elsa Morante; la città di Michelangelo, della minestra di arzilla e broccoli, delle puntarelle, dei cacio e pepe, dei paparazzi, dei villini liberty, del Mandrione, del Caravaggio che va tanto di moda; insomma tutta quella tanta roba bella sembra devastata come il mio povero presepe dei topi. I topi che invadono e sfasciano l' armonia del presepe. Roma oggi sta scivolando verso la serie C, saltando la B.
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I tassisti non sanno dove transitare, le strade sono squartate come operazioni all' addome fatte col coltello, la gente è incazzata, prosperano i negozi di souvenir.
Da tempo penso che Roma scivoli sulla coda del mondo perché sta diventando «invisibile». C' è tanto caos che pare ricopra ogni bellezza, ogni tentativo di vita civile. Turisti allo sbando, cittadini che aspettano autobus fantasma, spacciatori a quintali come le droghe che vendono (sembrano un esercito di «bibbitari» dei cinematografi di una volta!). Anche al Verano, uno dei cimiteri monumentali più grandi e importanti d' Europa regna l' abbandono. Là vi sono sepolti i già citati Belli e Petrolini e poi Sergio Corazzini, Gassman, Massimo Girotti, Ugo La Malfa, Goffredo Mameli, Marcello Mastroianni... una lista infinita, una memoria infinita... Gran Signori che si rivolteranno nella tomba. Ecco, voglio pensare che Roma non sia una tomba. È una città sparita, invisibile.
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Quando vedo i turisti in massa (scusate ma sembrano lanzichenecchi fuggiaschi) che si spingono contro i monumenti, mi dico: «Ma cosa vedono?». Infatti non contemplano Roma, la scrutano affamati o sfamati di pizze surgelate e matriciane fatte col sugo di conserva congelato dalle foto sui dépliant che gli hanno messo in borsa gli operator turistici. Io amo così tanto Roma da pregare che la sua antica ferocia riemerga dalla melma del Tevere per tornare a battere il mondo. Ma io, lo so, morirò prima che ciò avvenga.
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