DAGOREPORT – MARINA E PIER SILVIO NON HANNO FATTO I CONTI CON IL VUOTO DI POTERE IN FAMIGLIA…
Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” - Estratti
«In fondo, L’Ulivo fu un tentativo di rivoluzione... Diciamo un colpo di partito, se non un colpo di Stato». Nessuno ha mai paragonato Romano Prodi a Robespierre. Ma dal modo in cui Arturo Parisi descrive gli avvenimenti del 1996, pare di vederlo il Professore in marsina, giubba e jabot, mentre indottrina i fedelissimi che sembrano appena usciti dal Club dei giacobini.
Perché così erano visti allora gli ulivisti dai partitisti di centrosinistra che temevano di venire decapitati. «E tra i partitisti io passavo per l’anima nera degli ulivisti», sorride l’uomo che fu più vicino a Prodi: «Sarà stato per la barbetta nera che portavo».
(...)
La «sconfitta» maturò il 9 ottobre 1998, giorno in cui il governo Prodi chiese la fiducia sulla Finanziaria. E cadde alla Camera per un voto. Nel raccontare alcuni dettagli di quello scontro di potere, «l’anima nera» fa emergere l’altra metà di sé: «Nella vita precedente ero un ricercatore, un sociologo politico. Poi sono caduto in piscina».
Arturo Parisi con Pierluigi Castagnetti Romano Prodi Walter Veltroni Mauro Zani
In che senso?
«Per molti anni avevo avuto un confronto culturale con Beniamino Andreatta nella redazione del Mulino che dirigevo a Bologna. Ragionavamo sì di politica, ma in modo accademico. Finché, a ridosso della battaglia referendaria, mi disse: “A furia di studiare i nuotatori dal bordo della piscina, ci finirà dentro anche lei”. Imprudente, gli risposi che non sarebbe accaduto».
Invece si ritrovò nella vasca. E in mezzo a pescecani.
«Se ripenso a un colloquio tra Massimo D’Alema e Prodi... Il primo era già al posto del secondo a Palazzo Chigi, mentre il secondo era in predicato di andare alla presidenza della Commissione europea. Erano i giorni della sfida di Prodi, quelli del “competition is competition”.
Eravamo alla vigilia della nascita dei Democratici, che D’Alema definiva “il partito nato contro di me”. Quel giorno, il premier andò dritto al punto: “Vedi Romano, ammesso che ci siano delle possibilità perché tu vada a Bruxelles, come potrei sostenere con le altre forze socialiste europee la candidatura di uno che promuove un partito contro un loro governo?”. Prodi si limitò a un “ho capito”. Glielo disse in inglese: “I got it”. In quel periodo gli piaceva usare l’inglese».
Magari perché a Palazzo Chigi allora non si parlava l’inglese. In ogni caso la rivoluzione dell’Ulivo era già finita.
«Sì, con la caduta del governo nel ’98. Quando si confrontarono due narrazioni contrapposte: quella della “congiura” a favore di un disegno personale di D’Alema, e quella del “fallimento” subìto da Prodi. In mezzo c’ero io, accusato di aver fatto male i conti alla Camera. Una sciocchezza peggiore dell’altra».
Per via di quel voto in meno?
«Era come dire che Prodi era un dilettante che aveva messo il suo destino nelle mani di un altro dilettante: le mie. Una mera offesa. La verità è che ci fu un conflitto tra due idee opposte: tra chi immaginava un disegno innovativo dal nome L’Ulivo, e chi sosteneva che il governo Prodi era solo il frutto di un accordo tra partiti, come tanti altri nel passato».
È la storia del derby tra Prodi e D’Alema.
«Una partita storica. Perché è vero che nel ’96 Prodi aveva battuto Silvio Berlusconi nelle urne. Ma la vittoria elettorale era fondata sulla divisione del polo opposto. Anche se dal punto di vista politico la nostra proposta era superiore alla loro. Tuttavia i numeri elettorali alla fine ci presentarono il conto».
Due anni dopo.
«Appunto. Da una parte c’era chi, dopo l’ingresso dell’Italia nell’euro, considerava esaurita la ragione sociale del governo ed era impaziente di tornare alle antiche usanze.
Dall’altra c’era chi, dopo il fallimento della Bicamerale per le riforme guidata da D’Alema, si trovò improvvisamente libero da impegni. Ma la crisi fu avviata da Rifondazione comunista, che ci appoggiava dall’esterno: lì c’era un confronto molto teso tra il presidente del partito Armando Cossutta e il segretario Fausto Bertinotti. Il primo immaginava di entrare stabilmente nella maggioranza, il secondo voleva chiudere quella parentesi. A Palazzo Chigi sapevamo di doverci muovere in fretta».
Ma a chi potevate chiedere aiuto voi ulivisti, se i partitisti puntavano alla restaurazione?
«D’accordo con Prodi e con Walter Veltroni, incontrai Oliviero Diliberto che era il capogruppo di Rifondazione alla Camera. Al pari di Cossutta, era propenso a proseguire il rapporto con noi. E siccome siamo entrambi sardi, concordammo di vederci a ferragosto a casa di mio fratello. A Cagliari. Lontano da Roma».
E lontano dai radar di Bertinotti e D’Alema.
«Dovevamo concordare l’allargamento dell’Ulivo al Prc. Diliberto mi disse che se lui e Cossutta avessero vinto la battaglia interna, sarebbero entrati con le insegne del partito: “In caso contrario la scissione mi sembra inevitabile”.Concordammo i dettagli, la sequenza degli atti, compreso il voto di fiducia. E ci dicemmo: “Ora o mai più”».
(...)
Informò Prodi della conversazione?
«Certo. Anche se più avanti non ritenni necessario raccontargli un ultimo passaggio. Quando fu chiaro che Bertinotti avrebbe vinto la partita dentro Rifondazione, Diliberto mi richiamò. Eravamo a ridosso del voto alla Camera e lui era preoccupato che potesse saltare il nostro accordo: “Ora che finiamo in minoranza nel partito — mi disse — se voi tornate indietro noi siamo morti.
Mi assicuri che andrete avanti?”. Gli risposi: “Andremo avanti”. Per questo ero sereno. Davvero. Mi sentivo a posto con la coscienza, tanto che alla vigilia della fiducia il ministro Luigi Berlinguer quasi mi redarguì: “Mi sembri addirittura allegro. Ti rendi conto che domani rischiamo?”. E io: “Abbiamo un’alternativa?”».
Il giorno dopo le speranze di salvare la rivoluzione con quel pranzo d’agosto si spensero. E non può dirmi che a Palazzo Chigi non fosse stata fatta la conta dei favorevoli e contrari.
«L’esito del voto dentro Rifondazione era sconosciuto a tutti. Tra le nostre fila invece mancarono un paio di deputati del gruppo Dini. L’ex presidente della Camera Irene Pivetti, che non venne a Roma adducendo problemi legati alla sua maternità. E Silvio Liotta che quel giorno era stato dato improvvisamente assente. Poi apparve a Montecitorio e noi tirammo un sospiro di sollievo. Fu l’illusione di un momento. Perché invece di dare la fiducia, ci votò contro».
E consegnò la vittoria a D’Alema.
«Ma D’Alema non prevedeva che il governo sarebbe caduto. Sapevamo che voleva sostituirci ma un po’ più in là, con il sostegno di Francesco Cossiga e di Franco Marini, segretario del Ppi. Con il quale appariva chiaro che avesse un accordo: D’Alema avrebbe occupato la carica principale a Palazzo Chigi e Marini la carica secondaria al Quirinale».
(...)
Con Prodi almeno si confrontò subito dopo la caduta del governo?
«Come non vivere quel passaggio come una sconfitta comune? Ma chi lo conosce e frequenta sa che in certi casi lui parla con l’espressione del volto. Solitamente non parla.
E quando si racconta che a volte sembra addormentato è un errore. Si addormenta davvero».
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