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Arturo Zampaglione per ''la Repubblica - Affari & Finanza''
DONALD TRUMP CON IL PADRE TYCOON
"Vedi quel barbone?", chiese Donald Trump a Marla Maples, la modella con cui stava passeggiando per le strade di Manhattan e che presto sarebbe diventata la moglie numero due. Di fronte alla coppia, steso sul marciapiede e protetto da un telo di plastica, un senzatetto chiedeva l'elemosina. "Ebbene, il barbone ha 900 milioni di dollari più di me", disse Trump, mascherando con una battuta l'angoscia di quei giorni.
DONALD TRUMP CON IL PADRE TYCOON
Sì, perché all'inizio degli anni Novanta l'immobiliarista sbruffone che oggi punta alla Casa Bianca, vantandosi delle sue ricchezze e seminando il panico nell'establishment repubblicano, aveva debiti per quasi un miliardo di dollari ed era a un passo dalla bancarotta. La ragione? L'economia americana stentava a riprendersi dal crollo di Wall Street dell'ottobre 1987 e il Taj Mahal, il più grande dei tre casinò di Trump ad Atlantic City, che era stato appena costruito in uno stile orientaleggiante e con una spesa di un miliardo di dollari, finanziata con junk bonds al 14%, era stato costretto a chiedere il "Chapter 11", cioè l'amministrazione controllata.
The Trump Organization, la holding del palazzinaro, era in rosso per 3 miliardi di dollari. Per uscire dall'impasse, e soprattutto guadagnare tempo, Trump fu costretto ad accettare il diktat della Citibank e altri creditori: dalla cessione di metà del Taj Mahal, alla vendita di alcuni "giocattoli", come la sua compagnia aerea Trump Shuttle e del Trump Princess, lo yacht da 90 metri che aveva appena comprato dal Sultano del Brunei.
Con gli anni Trump è poi riuscito a ripianare i debiti e a rilanciare le attività della holding, anche se gli incontri ravvicinati con le procedure fallimentari hanno sempre contraddistinto la sua storia imprenditoriale. "Non mi piace la parola che comincia con la B", ha detto cinque anni fa, riferendosi all'ipotesi di bancarotta, in un'aula del tribunale fallimentare del New Jersey.
mike tyson robin givens e donald trump
E anche adesso, in campagna elettorale, cerca sempre di glissare sugli aspetti più oscuri e controversi della sua carriera. Ma è inevitabile che nei prossimi mesi ogni "affare", ogni fallimento (in tutto sono quattro), ogni grattacielo e ogni società legata a Trump finiscano sotto il microscopio dei media e dei rivali, aprendo nuove polemiche dopo quelle cominciate al momento dell'annuncio della sua candidatura.
mike "the situation" sorrentino donald trump
"Sono veramente ricco e ne sono orgoglioso", ha detto a giugno di fronte alle telecamere "The Donald", come viene soprannominato, vantandosi del "bel lavoro" che ha fatto, sostenendo che gli Stati Uniti hanno bisogno di un leader come lui e sventolando un foglio di carta con il calcolo del suo patrimonio: 8 miliardi 737 milioni e 540mila dollari. Il problema? Che la valutazione fatta da Trump è molto diversa - il doppio - di quella di Forbes che da decenni pubblica le graduatorie dei Paperoni d'America e di quelli di tutto il mondo. Rispetto ai quasi 9 miliardi "autocertificati" da Trump, la rivista economica si ferma a 4,1 miliardi.
katie couric vestita da donald trump
"Le esagerazioni fanno parte della politica elettorale né più che meno dell'abbracciare i bebè", ha commentato ironico Forbes, ricordando, da un lato che l'immobiliarista ha sempre cercato di apparire più ricco di quanto non lo fosse, dall'altro che la vera divergenza nelle cifre riguarda il valore del "brand personale". Secondo Trump il suo nome (e il suo "marchio") valgono 3,3 miliardi di dollari, ma le stime degli esperti si fermano a 125 milioni.
hulk hogan donald trump andre the giant
Al di là di queste disparità, è comunque chiaro che Donald Trump, classe 1946, sia l'uomo più ricco che abbia mai tentato la scalata alla presidenza americana. Di qui alcune importanti questioni politiche, che vanno al di là del suo carattere vanitoso e sbruffone. Il messaggio che il candidato repubblicano vuole trasmettere agli elettori è semplice: i miliardi sono una prova delle sue capacità personali, che, in caso di vittoria per Casa Bianca, metterebbe a disposizione del paese. E Trump gioca con abilità una carta che piace a moltissimi americani, quella della "ricchezza-spettacolo": invece di mimetizzare o minimizzare i suoi averi, come farebbe la maggioranza dei politici europei, li ingigantisce e li personalizza, sapendo che al di là dell'Atlantico i miliardi suscitano più ammirazione che invidia.
Ovviamente Trump tralascia sempre un particolare importante: non è un self made man, non si è fatto tutto da solo. Frequentava ancora la Wharton School dell'Università della Pennsylvania, quando, nel 1968, a soli 22 anni, entrò nella holding immobiliare del padre, Fred Trump, che aveva un piccolo impero a Queens, una delle cinque circoscrizioni di New York, di edifici affittati al ceto medio.
donald trump con un pony e andy warhol
Tre anni dopo Donald prese in mano la società, la ribattezzò The Trump Organization e spostò il cuore delle attività a Manhattan. Il piano? Costruire grattacieli e altri edifici di lusso, progettati da celebri architetti e facilmente riconoscibili. A ognuno veniva dato il nome "Trump", creando un vero e proprio brand: la più famosa diventò la Trump Tower, la torre smagliante di 58 piani che si alza accanto a Tiffany, sulla Quinta avenue, dove The Donald ancora risiede in un attico di 3mila metri quadri, coperto di marmi e ori, e dove ha gli uffici la sua holding.
donald trump con don king e barbara walters
In quasi mezzo secolo di attività imprenditoriale Trump ha lanciato mille iniziative, concentrandosi soprattutto in tre settori (grattacieli residenziali, campi da golf e casinò) e puntando sempre sul marchio personale: come confermano i suoi dieci libri, tra autobiografie e guide all'arricchimento, oltre al suo ruolo in The Apprentice, il fortunato show televisivo sulla rete Nbc. Tutte le attività fanno capo alla Trump Organization, una società a responsabilità limitata (che in America non ha obblighi di pubblicazione dei bilanci), di cui lui stesso è presidente è chief executive, con uno stipendio di 250mila dollari l'anno, mentre la vicepresidenza è affidata a tre dei cinque figli: Donald Junior, Ivanka e Eric.
La holding controlla tutte le proprietà immobiliari, a cominciare ad esempio dalla Trump World Tower, il grattacielo che mette in ombra il Palazzo di vetro dell'Onu (valore: 290 milioni di dollari), dal Trump Hotel Las Vegas (valore della quota: 162 milioni), dal Trump Park Avenue (valore: 142 milioni). La Trump Organization possiede anche sette campi da golf disseminati negli States: "Sono i più belli del mondo", ha detto The Donald in una manifestazione elettorale. E ovviamente hanno tutti il marchio Trump, come anche i casinò o altre operazioni immobiliari in corso in vari angoli del mondo, spesso tra le proteste degli ambientalisti, da Istanbul a Dubai, da Israele alle Filippine.
alec baldwin is joined by donald trump melania knauss
In alcuni casi, come per il Trump World Seoul, il candidato repubblicano si è limitato a dare in licenza ai costruttori sud-coreani il suo nome in cambio di 5 milioni di dollari: a conferma della forza del "personal brand". Che però non sempre ottiene risultati miracolosi. Un'inchiesta della rivista Time ha infatti elencato i flop più umilianti del Donald. Nel 2006, ad esempio, lanciò la Trump Vodka, definita come un "distillato del successo". Con la sua solita boria, disse che il T&T (Trump and Tonic) sarebbe diventata la bevanda alcolica più diffusa in America: invece il progetto è stato subito accantonato per la scarsa domanda.
Stessa sorte per Trump Mortgage: doveva diventare, secondo le previsioni del miliardario sbruffone, la prima società come volume dei mutui concessi, e invece fu chiusa nel 2007, in piena tempesta finanziaria. Identico destino - e forse ancor più simbolico - per Trump, The Game, un gioco di società simile al Monopoli: anche qui il brand non ha avuto il magico risultato che Donald si aspettava.
Come dire: il valore del "personal brand" non è come quello del marchio della Coca Cola o di Google. E di qui anche le sorprendenti altalene: è bastato che il candidato repubblicano si scagliasse contro gli immigranti messicani ("tutti stupratori"), per fargli perdere non soltanto i contratti con Nbc, Macy's o Univision, ma soprattutto 125 milioni di dollari nel valore (stimato da Forbes) del suo asset più prezioso. Cioè il brand.
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