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Mattia Feltri per "La Stampa"
La scoperta della democrazia in età senile può provocare danni di carattere russo post-comunista. Succede anche nel Pdl, dove il dibattito interno successivo all'accantonamento (apparente) di Silvio Berlusconi vaga fra l'euforia, la deriva anarchica e il desiderio di pogrom. à l'ebbrezza di libertà che spinge l'ex governatore della Puglia, Raffaele Fitto, a dichiarare chiusa «la stagione dei vertici autoreferenziali di nominati».
Cita la formula che Angelino Alfano, al quale si oppone, pronunciò nel precedente quarto d'ora d'aria, nella primavera 2012, quando Berlusconi aveva annunciato il ritiro: «La legittimazione dal basso, rispettando il principio anatomico secondo il quale il corpo umano è predisposto per sedere su una sola sedia, anche per evitare di lasciare vuote le funzioni esercitate sulle altre».
Allora durò poco, stavolta chissà : ma il partito appare contendibile per cui le distinzioni fra falchi e colombe, addebitate alla fantasia dei giornalisti, si concretizzano in correnti battezzate dai fondatori con nomi più pretenziosi: i governativi di Alfano, i lealisti di Fitto, si intravedono gli scissionisti a destra, l'ultima è dei "campani" accampati in un'indefinita posizione prossima a Berlusconi, e poi il gruppetto di pretoriani alla Daniela Santanchè, che tace e affila la sciabola.
Si dibatte sul posizionamento politico, se ci si debba spostare verso l'Udc e verso Mario Monti e rimanere nel Ppe (mozione di Roberto Formigoni), se si debba resistere alle «tentazioni neocentriste» (mozione Mariastella Gelmini), se l'indirizzo vada stabilito dal segretario in carica, cioè Alfano (sempre Formigoni: «La linea politica è quella della fiducia al governo di larghe intese: ha vinto Alfano e la sua leadership. Così fino al 2015»), oppure individuato attraverso un congresso, termine che negli ultimi due decenni non compariva nei vocabolari di centrodestra.
Lo ha recuperato proprio Fitto, come in un gioco di prestigio: «Il vero nodo per recuperare l'unità di tutti è quello di una legittimazione che preveda l'azzeramento di tutti gli incarichi di partito, e la convocazione di un congresso straordinario che discuta e decida la linea politica e che faccia esprimere direttamente i nostri elettori per l'elezione del segretario, degli organismi dirigenti, da Roma fino al più piccolo dei nostri paesi».
Un'abbuffata e non basta: naturalmente c'è chi vuole il congresso e chi no, cioè gli alfaniani. C'è chi nella nebbia intravede il totem del suffragio, cioè le primarie («La conferma, un domani, della leadership di Alfano non potrà che passare attraverso le primarie», dice Maurizio Sacconi). Sia chiaro, la similitudine ha soltanto scopi fotografici, ma il subbuglio è quello dei cani all'apertura del canile.
Il saggio Cicchitto ricorda a chi, per questioni anagrafiche, non ha vissuto la Prima repubblica e non ha mai provato il brivido del congresso, che servono «regole, mozioni, tesseramento, ci vorrebbe almeno un anno». In momenti così, però, l'entusiasmo non si contiene: «Non capisco perché il congresso sia considerato deflagrante da autorevoli dirigenti che pochi mesi fa volevano organizzare le primarie», dice Anna Maria Bernini. Né si contiene una comprensibile propensione - dopo cinque lustri di illuminata dittatura - ai modi caporaleschi, come quelli di un purgativo Formigoni: «Si deve prendere atto che i "fedelissimi" hanno sbagliato. à chiaro che chi ricopre incarichi e per giorni ha stressato noi e il Paese intero, nel tentativo di far cadere il governo, non può più essere confermato in quei ruoli». Sono i presupposti della lotta di potere, e di un dibattito particolarmente sterile. Si ricordino che se fanno Weimar, dopo torna il Capo.
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