1. NO BANANA, NO RIFORME! E RENZI SI BUTTA SUL REFERENDUM PER LA REVOCA DEL SENATO 2. SCARTATA L’IDEA DEL VOTO ANTICIPATO: RE GIORGIO L’HA VIETATO FINO A DICEMBRE 2014 3. PER IL PAROLAIO FIORENTINO NON RESTA CHE MANDARE LA FIRST SIGNORINA BOSCHI IN TV A SPARARE BALLON D’ESSAI DOMENICALI: I RENZIANI NON HANNO I NUMERI A PALAZZO MADAMA PER LA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL SENATO E DELL’ITALICUM 4. IL DE PROFUNDIS DI FELTRI SUL “GIORNALE”: “PER IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SI PROFILA UN PERCORSO DI GUERRA, AL TERMINE DEL QUALE NON È ESCLUSO VI SIA UNA TOMBA PER IL SUO GOVERNO. UN RITARDO, O, PEGGIO ANCORA, UN FALLIMENTO DELLA PROMOZIONE RIFORMISTICA SAREBBE UNA CATASTROFE PER L'EX SINDACO DI FIRENZE, CHE HA RIPETUTAMENTE DICHIARATO: SE NON RIESCO A ELIMINARE IL BICAMERALISMO PERFETTO, MI RITIRO DALLA POLITICA. FOSSIMO IN LUI, FAREMMO GIÀ LE VALIGIE. MORS TUA, MORS MEA”

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1. NO SILVIO, NO RIFORME
Vittorio Feltri per ‘Il Giornale'

Sulle riforme ciascuno la pensa come crede: ad alcuni piacciono, ad altri no. Mi riferisco a quelle ideate da Matteo Renzi e concordate con Silvio Berlusconi nella sede del Pd. Ma il vero problema è che difficilmente potranno essere realizzate. Solo gli ingenui s'illudono che il sistema istituzionale sia davvero sul punto di rinnovarsi, adeguandosi alle attuali esigenze.

Cominciamo col dire che la soppressione delle Province è una finzione, visto che il personale di questi enti continuerà a percepire la paga. Cosicché i costi gestionali non diminuiranno. Fra l'altro le attribuzioni provinciali non sono facoltative, bensì obbligatorie: chi le assumerà? Transeat.

Passiamo al superamento del Senato. Superamento un corno. Anche in questo caso gli organici pletorici e costosissimi dei dipendenti non saranno sfoltiti. Palazzo Madama seguiterà pertanto a essere uno stipendificio di lusso.

Ma questi sono soltanto dettagli tecnici. Esaminiamo gli aspetti politici, che presentano complicazioni ancora più allarmanti. Allora. Le riforme in questione fanno parte di un piano, come sopra ricordato, studiato dal premier e dal capo di Forza Italia. Va da sé che dovrebbero essere approvate sia dal Pd sia da Fi. Altrimenti o sarebbero zoppe o destinate a rimanere carta straccia. Non ci piove.

Ora, però, è noto che il Cavaliere è all'angolo: tra pochi giorni la Procura deciderà se egli debba andare in carcere, ai domiciliari o ai servizi sociali. Comunque sia, la sua agibilità politica sarà azzerata o fortemente limitata. Nel senso che Silvio non avrà più la piena facoltà di guidare il proprio partito e neppure di negoziare direttamente le modifiche da apportare alla Costituzione. Ci sarebbe soltanto una soluzione: che Giorgio Napolitano, non appena Berlusconi avesse iniziato a scontare la pena, gli concedesse motuproprio la grazia. A quel punto la strada sarebbe in discesa. Ma scommettere su una simile ipotesi significa essere troppo ottimisti.

Quindi? Per il presidente del Consiglio si profila un percorso di guerra, al termine del quale non è escluso vi sia una tomba per il suo governo. Un ritardo, o, peggio ancora, un fallimento della promozione riformistica sarebbe una catastrofe per l'ex sindaco di Firenze, che ha ripetutamente dichiarato: se non riesco a eliminare il bicameralismo perfetto, mi ritiro dalla politica. Fossimo in lui, faremmo già le valigie.

In effetti, la soppressione del Senato comporta quattro passaggi parlamentari, due per ogni Camera. Ciò richiede molto tempo. Se poi l'iter non fosse sveltito dalla spinta del Cavaliere, addio: le probabilità per Renzi di concretizzare le proprie intenzioni si ridurrebbero al minimo, o a zero. Inoltre nel Pd non cessano le polemiche, gli scontri, le divisioni, le beghe. Infine il Movimento 5 stelle si è irrigidito e non ha alcuna voglia si sostenere il giovin Matteo, anzi ne auspica un capitombolo.

La battaglia non è più fra destra e sinistra, ma fra nuovo e vecchio. Gli schieramenti tradizionali si sono spacchettati e gli equilibri politici sono mutati. Per assurdo, la durata di Renzi dipende dalla libertà di Berlusconi di dargli una mano. Ma se Berlusconi non ci sarà, non ci sarà neanche la sua mano. Mors tua, mors mea.

2. E RENZI GIÀ PREGUSTA IL REFERENDUM SULLE RIFORME
Fabio Martini per ‘La Stampa'

Se Silvio Berlusconi cambiasse davvero idea sulle riforme - non sarebbe la prima volta - il presidente del Consiglio avrebbe già il suo «piano B». Scartate le elezioni anticipate, Matteo Renzi è pronto ad affrontare l'iter parlamentare con i voti della sua maggioranza e poi - e questo è il passaggio più insidioso per i nemici del governo - se nella votazione finale su «nuovo» Senato e Titolo V, dovessero mancare i due terzi, a quel punto scatterebbe l'obbligo di un referendum confermativo.

Un test elettorale che Renzi immagina di affrontare con le vesti del riformatore. Sfidando Berlusconi e Grillo, nella versione dei custodi dell'ordine costituito e cioè del «vecchio» Senato. I due se la sentiranno di farsi inchiodare in quel ruolo?

Matteo Renzi è convinto di no, ma intanto oltre a darsi un percorso a medio termine, sul breve è disposto a qualche significativa concessione al vasto fronte dei riottosi. Lo ha fatto capire in una intervista al «Quotidiano nazionale»: «A me basta che il Senato non costi più un centesimo, non sia eletto, non dia la fiducia, non voti il bilancio. Sul resto, si discute».

Come dire: si può trattare sui «nominati» dal Capo dello Stato e, forse, sulla presenza imponente dei sindaci. Un percorso indirettamente confermato dal ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, che a Sky, alla domanda se il governo punta al voto nel caso di fallimento, risponde così: «Assolutamente non pensiamo a un piano B elettorale in caso di fallimento». E ha aggiunto: «Se Forza Italia dovesse sfilarsi dall'accordo» sulle riforme costituzionali «i numeri per andare avanti ci sarebbero comunque».

E il motivo di tanta sicurezza è spiegato dal combinato disposto dei numeri parlamentari e dell'ordinamento costituzionale. Il ddl che contiene la riforma del Senato, l'abolizione del Cnel e un diverso rapporto tra Stato e Regioni, come tutte le leggi di revisione costituzionale, deve essere approvato attraverso quattro deliberazioni, o cinque in caso di modifiche tra un passaggio e l'altro: per le prime due (o tre) votazioni alla Camera e al Senato, è sufficiente la maggioranza semplice dei presenti e dunque il governo dovrebbe stare tranquillo, vantando buoni margini in entrambe le Camere.

Qualche insidia in più nelle due votazioni finali, perché in questo caso è necessaria la «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera», come detta l'articolo 138 della Costituzione. Al Senato serviranno dunque 160 sì e la maggioranza ne conta attualmente 170, un discreto margine di sicurezza che fa dire al professor Stefano Ceccanti, costituzionalista con esperienza parlamentare: «Obiettivamente il governo si trova nella situazione del "win-win" : vince se Forza Italia conferma l'impegno riformatore, ma vince pure se Berlusconi si tira indietro: la maggioranza è destinata a compattarsi nelle votazioni decisive. Potendo affrontare il successivo referendum con l'aura dei riformatori».

Una lettura che trova una indiretta conferma dall'improvviso buonumore che ha preso i «piccoli» della maggioranza davanti all'ipotesi di uno smarcamento di Berlusconi. Il leader del Ncd Angelino Alfano ostenta baldanzosi toni di sfida: «Noi siamo pronti anche a strappi e rotture», sulle riforme istituzionali «la maggioranza assoluta c'è e se non ci saranno i due terzi, andremo a referendum».

Altrettanto ingolosito dalla fuga di Berlusconi, anche Benedetto della Vedova di Scelta Civica: «Spero FI non lasci il tavolo delle riforme, perché sarebbe solo per ragioni elettoralistiche di corto respiro. Ma se ciò dovesse accadere, la maggioranza avrebbe il dovere di (e i numeri per) procedere da sola». I partiti minori della maggioranza si sfregano le mani per una ragione semplice e al momento inconfessabile: se Berlusconi si sfilasse, Ncd, Scelta civica e Popolari si ritroverebbero una rendita di posizione da spendere in una rinnovata trattativa sulla legge elettorale. Con una prevedibile sarabanda sulle soglie e sulle preferenze: esattamente le questioni che più teme il Cavaliere e che lo avevano indotto al patto con Renzi.

 

 

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