CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL GIORNO: “QUANTE…
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Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera”
Le bandiere a fasce rosso-oro, con la stella bianca su sfondo blu, sventolano sui balconi del centro. A Barcellona solo la pioggia, che ieri scendeva a dirotto, potrebbe rovinare la Giornata nazionale della Catalogna, la Diada, che commemora la caduta della città in mano alle truppe borboniche l’11 settembre 1714.
Sono passati 301 anni, e il riscatto sembra a portata di mano. Dal quartiere Gracia alla Ciutat Veilla, passando dalla Sagrada Familia, opera simbolo del maestro del modernismo catalano Antoni Gaudí, oggi un milione di persone riempirà l’avenida Meridiana innalzando i colori della Repubblica catalana.
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L’obiettivo di «Ara és l’hora», la piattaforma formata da Anc e Òmnium Cultural, storiche associazioni indipendentiste, è di formare un gigantesco mosaico umano, lungo più di cinque chilometri, fino alla piazza del Parlament de Catalunya. Proprio là, dove, tra poco più di due settimane si giocherà il futuro di questa regione che (forse) vuole davvero farsi Stato.
E’ iniziata stanotte, in scenografica concomitanza con la Diada, la campagna elettorale che potrebbe cambiare volto non solo alla Catalogna ma alla Spagna intera. Il presidente della Generalitat, Artur Mas, convocando le elezioni regionali anticipate per il 27 settembre non ha mai nascosto le sue ambizioni: vuole un voto «plebiscitario», al posto di quel referendum che il governo di Madrid non ha mai concesso.
Se la «Junts pel Sí» che lui stesso ha creato con grande equilibrismo politico — lista unitaria tra la sua Convergéncia democratica de Catalunya, partito neo-liberale di centro, e la sinistra di Esquerra repubblicana — conquisterà la maggioranza dei seggi, assicura Mas, inizierà un processo che in 18 mesi porterà alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza.
Su La Vanguardia, quotidiano di Barcellona, i dettagli della transizione burocratica: si creerà un’agenzia per la previdenza sociale, una banca nazionale, e poi si convertirà l’esistente, convincendo i funzionari che oggi lavorano per l’amministrazione spagnola a integrarsi al nuovo Stato catalano, «conservando tutti i diritti acquisiti».
Sembra una passeggiata, come quella che oggi faranno i partecipanti alla Via Lliure, la «via libera all’indipendenza». Gli ultimi sondaggi preannunciano, però, una vittoria di misura: la somma dei voti di Junts pel Sí e della Cup, altra formazione indipendentista, conquisterebbe tra i 68 e i 69 seggi su un totale di 135. Quindi, proprio sul filo di lana della maggioranza (dei deputati e non dei voti, peraltro, fermi al 44%). Molto staccate, le altre formazioni, che affrontano il voto del «27-S» come un’anticamera delle elezioni generali di dicembre, in tutta Spagna. Ciutadans e Catalunya Sí que es Pot , rielaborazioni locali di Ciudadanos e Podemos , si contendono il secondo posto: una contraria all’indipendenza, l’altra sostenitrice della «libera scelta».
Dietro, sempre più in affanno, i partiti storici: il Psoe di Pedro Sánchez che fatica a far decollare la sua «Terza via» e il Partido popular del premier Mariano Rajoy che, ostinato nel suo immobilismo davanti alla «questione catalana», nelle ultime settimane ha chiesto il sostegno dei colleghi europei contro il «virus del divisionismo».
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È toccato al britannico David Cameron ammonire i catalani: «Se vi separate, dovrete fare la coda per rientrare nell’Unione Europea». Minacce poco credibili per il fronte del Sì, che rifiuta lo spettro di una «Catexit» e da parte sua schiera in questi giorni una sorta di «brigata internazionale» di intellettuali e professori universitari: in maggioranza, guarda un po’, scozzesi, come lo scrittore cult Irvine Welsh (Trainspotting).
Alla fine, a decidere il destino della Catalogna sarà quel 26,1% che ancora non sa cosa votare. Comunque vada, la secessione ha smesso di essere una proposta stravagante, o un sogno romantico. Come sottolinea Joaquim Torra i Pla, presidente di Òmnium Cultural: «Per noi l’indipendenza è uno strumento per essere più competitivi, per avere più risorse, perché il catalano si possa finalmente parlare anche al Parlamento europeo. E ormai sappiamo che ciò potrà avvenire solo se siamo uno Stato».
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