DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Mattia Feltri per “la Stampa”
Alessandra Moretti teme di avere perso le elezioni venete anche a causa del «look da ferrotranviere» imposto dal partito. L’altro timore - ma questo è tutto nostro - è che i politici abbiano preso a dare un’importanza eccessiva a stoffe, colori, motivi e accessori, come se l’apparenza fosse essenza. Lo è soltanto un po’.
Umberto Bossi trent’anni fa segnalò così una distanza dalla politica romana che aveva attraversato il mezzo secolo del dopoguerra in tenuta dall’ambizione aristocratica, grigi e gessati e cravatte scure; il gran capo lombardo arrivava nelle piazze e in Parlamento con giacche a quadretti sopra camicie a righe con cravatta regimental, in un garbuglio di colori dall’effetto incidente stradale: ma in fondo era il modo arruffato in cui si conciavano nei paesi del nord alla domenica mattina per andare a messa. Bossi era uno di loro.
E poi naturalmente c’era tutto il resto che era conseguente, il linguaggio sfacciato, il tono gutturale, la proposta politica elementare e rivoluzionaria, perlomeno nelle intenzioni. Il resto della truppa leghista si adeguava, esibiva volentieri accenti poco televisivi, cravatte multicolor allentate, un po’ nello stile ora evoluto, diciamo così, in quello dei cinque stelle.
I leghisti, infatti, da bravi e incolleriti padri di famiglia pedemontana, nei palazzi usavano giacca e cravatta con lo spirito con cui la usavano al battesimo del nipote o ai colloqui a scuola, persino se il professore era meridionale.
L’evoluzione dei cinque stelle si sublima essenzialmente nel rifiuto della cravatta (tranne Luigi Di Maio, sempre impeccabile come un praticante di studio legale): la giacca la portano perché a Montecitorio è obbligatoria. Sotto si vede di tutto, jeans, pantaloni di telaccia, marsupi, sneakers, sandali financo in versione maschile, cioè tutto l’armamentario della purezza popolare (e popolana) al potere, oltre che dello sfregio al corrotto ordine costituito sé innalzato in doppiopetto. L’obbligatoria citazione dell’abito che fa il monaco vale ormai per tutti. Antonio Di Pietro inaugurò la moda dello zainetto, ci girò tutto il Mugello alle suppletive del ’97 e se lo portò alla Camera, a indicare un certo dinamismo ripreso ultimamente dal sindaco di Roma, Ignazio Marino, quando si propone da sorridente rivoltoso a pedali.
laura boldrini e maria elena boschi
Alla lunga, come si vede, l’invenzione estetica ha un senso se accompagnata da un messaggio e soprattutto da un potere. Lo stile da Audrey Hepburn della compita periferia italiana di Maria Elena Boschi, tutta rosa e tutta gialla, funziona non tanto in sé ma in lei, in quanto detentrice e amministratrice del potere renziano. Si coltiva il dubbio che Alessandra Moretti non sarebbe titolare di un messaggio simile nemmeno dismessi i panni del ferrotranviere e recuperata una sua originalità.
Silvio Berlusconi, per esempio, ha sempre avuto la fissa per le divise: lui è come Paperino, ha settecento vestiti tutti uguali. Per anni lo si è visto col medesimo doppiopetto grigio e cravatta a pois; ora l’alternativa è quell’inquietante mise da mafia rumena, t-shirt nera sotto giacca nera che sceglie nelle occasioni informali (un tempo era il maglione blu con la camicia celeste).
Molti ricorderanno le foto di antiche vacanze in cui Berlusconi trainava il gruppo in bianco al jogging, o nelle quali gli ospiti in barca erano un collettivo in maglia a strisce rosse e nere: si sapeva benissimo chi era il capo e chi i luogotenenti, e si coglie subito il drammatico effetto emulazione di alcuni onorevoli forzisti, e soprattutto di alcune parlamentari in tenuta da imprenditrice settentrionale che non rinuncia al sex appeal eccetera.
Sull’evoluzione di Matteo Renzi praticamente sono stati scritti dei trattati, specie sul passaggio dalle giacche marroni con cravatta gialla tipo Flaminio Piccoli alla camicia bianca arrotolata sulle braccia; è scontato che col ciuffo da boy scout degli Anni Novanta non sarebbe mai diventato presidente del Consiglio, così come la mitologia di Yanis Vaoufakis deve parecchio al taglio Die Hard dei giubbotti e delle motociclette, oppure quella di Nichi Vendola all’introduzione dell’orecchino nel dibattito politico.
Il difficile è capire in anticipo quando le cose non funzioneranno: gli abiti arancio di Roberto Formigoni e le giacche da top gun di Gianfranco Fini ebbero soltanto l’effetto di certificare un declino: nemmeno il guardaroba aveva più niente da dire.
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