DAGOREPORT - PER RISOLVERE LA FACCENDA ALMASRI ERA SUFFICIENTE METTERE SUBITO IL SEGRETO DI STATO E…
Maria Giovanna Maglie per Dagospia
E’ scoppiato nella notte di domenica il caso Hollywood, come quei segreti un po’ zozzoni che nella città del cinema si sussurrano fingendo un segreto, invece lo sanno tutti. A Hollywood, orrore, piace Donald Trump, e a rivelare che il re è nudo ci pensa uno scrittore sceneggiatore maudit, Bret Easton Ellis, quello di "American Psycho".
Il tweet è il seguente: “ Ieri sera ho cenato a West Hollywood con alcuni amici e una coppia che non avevo mai incontrato prima e sono rimasto molto stupito dal fatto che alla fine della cena la maggioranza di chi stava a tavola, soprattutto gente che lavora a Hollywood, ha ammesso di sostenere Donald Trump come presidente”.
Il tweet va alla grande, tra chi si indigna e chi ritwitta, come Donald Trump, nessuno smentisce, il Los Angeles Times tace, e Bret Easton Ellis precisa che “È stato uno shock che è arrivato per me al culmine di una settimana in cui avevo incontrato molte persone a Los Angeles che si dicevano sostenitori di Trump, mostrando che, ancora una volta, i mass media nazionali hanno dato un racconto totalmente sbagliato della questione: la loro speranza, a quanto pare, non è la realtà. Questo è tutto”.
Già, è tutto, ed è la migliore risposta alla letteratura cominciata sei mesi fa almeno per demolire “il pagliaccio” che osò farsi candidato a presidente. A Hollywood, esclusa la pattuglia di liberal inamovibili, i pagliacci sono sempre piaciuti.
Ora nel giro di qualche giorno i tre repubblicani rimasti in lizza liquidano il Nevada, e Clinton e Bernie si contano in South Carolina, poi via verso Super Tuesday, il Primo marzo, quando si vota in Alabama, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma, Texas, Vermont and Virginia. Più, solo i repubblicani, in Tennessee e Alaska, e solo i democratici in American Samoa; dopo sarà difficile per tutti menarla ancora con “vedrai che è un fenomeno provvisorio”, “adesso arrivano le persone normali e lo fanno fuori”, e altre sciocchezze illusorie del genere che impazza soprattutto sui giornali europei.
Quelli americani hanno cominciato da già da un po’ a fare ammenda, sia pur acidamente, e dedicano al miliardario col riportone una attenzione spasmodica, soprattutto le televisioni, dove impazza, anche grazie al fatto che qui si invita chi tira pubblico e polemica, mica c’è la par condicio da minculpop.
Liquidato il povero Jeb Bush, che ha sbagliato tutto proponendosi come buono e moderato, più cattolico e amico dei cubani d’America, parte che fa meglio Marco Rubio, e che, al contrario di quanto si dice in Italia, ha tirato fuori il fratello W. troppo tardi, per recuperare i voti della base del partito, a disastro compiuto. Funziona sempre così con la dinasty. Nel 2000 il pupillo Al Gore evitò Bill Clinton e perse (sul serio, non per finta); nel 2008 Hillary fu consigliata di non esporre il marito fedifrago, e le mancò la forza vitale, l’energia testosteronica di Bill, tanto è vero che oggi, che lui è parecchio bollito, se lo porta dietro come un talismano.
johnny depp nei panni di donald trump nel finto biopic
I Bush che furono presidente sono rimasti a lungo nell’ombra perché Jeb voleva proporsi come un vero grande moderato, peccato che i consulenti esterni della campagna avessero già all’inizio dell’estate scorsa fatto sapere che gli elettori del Grand Old Party erano, e sono, soprattutto arrabbiati, molto arrabbiati con il sistema e con il partito, ritenuto moscio e inciucione, che era il caso di incominciare per tempo una campagna molto gridata, salvo poi negli ultimi mesi diventare un po’ più buoni. Non sono stati ascoltati.
Il disastro interno al Gop non è solo politico, è anche economico, troppi soldi finora buttati per Bush, troppi per contrastare senza grande successo Trump. Eppure continueranno così. Trump ha ricevuto denaro da se stesso, 11 milioni di dollari solo questo mese, e da piccoli finanziatori spontanei, la stessa categoria che dall’altra parte ha finanziato il ribelle democratico Sanders.
Ted Cruz, il senatore texano nato in Canada, inviso alla cupola del partito quanto il newyorchese, ha cominciato la gara di febbraio con 13,6 milioni, è il più ricco. John Kasich, già semiaffondato, ma anche Marco Rubio, hanno in cassa fra tutt’e due meno di 7 milioni di dollari perché i finanziatori tradizionali credevano di dover concentrare gli sforzi su Bush, o perfino su Christie, ma soprattutto hanno sprecato una montagna di denaro in “negative advertising”, ovvero attacchi furibondi e cattiverie su Trump e Cruz.
Un esempio? Right to Rise, un gruppo di Paperoni legato a Jeb Bush, ha speso nel mese di gennaio 34 milioni di dollari per denigrare i due cattivoni, col risultato che si è visto. Commenta sconsolata, e incazzata non poco, Laura Ingraham, star del talk radio show che porta il suo nome, storico appuntamento del mattino dalle 9 alle 12: “L’establishment Gop si racconta balle. Le elezioni hanno un nocciolo duro, che è il rigetto dell’agenda economica globale, delle politiche di immigrazione fallite; milioni di elettori vogliono che il partito prenda una direzione populista”.
Eppure i finanziatori continueranno a organizzarsi strategicamente contro Trump e concentreranno sforzi e denaro su Rubio. Vi dico solo che Our principles Pac, un gruppo che abitualmente finanzia i democratici su aborto, sanità e tasse, sta già investendo grosse cifre per convincere i repubblicani che Trump non è un conservatore affidabile. Per darsi un tono sostengono di aver già contribuito a ridurre i numeri della vittoria in South Carolina, che suona un po’ ridicolo. Vedremo.
Oggi le cose stanno così: Trump ha 67 delegati, Cruz 11, Rubio 10, se entro metà marzo non lo fermano, l’unica possibilità di negargli a luglio a Cleveland la nomination repubblicana sarà una furibonda battaglia di colpi bassi per far cambiare voto ad alcuni delegati e taroccare la convention. Lo dico da mesi che così si fece, e accade sotto gli occhi di tutti, nel 1976 per fermare Ronald Reagan e mantenere la candidatura di Gerald Ford, e a novembre Ford perse contro Jimmy Carter.
Il giornalista un po’ acido ma efficace che mesi fa inventò il termine “Trumpusconi”, spiegava che “Trump is Berlusconi in waiting, with less cosmetic surgery. Berlusconi is Trump in senescence, with even higher alimony payments. It’s a comedy, it’s a tragedy”, Trump è un Berlusconi in attesa di vittoria, con meno interventi di chirurgia plastica, Berlusconi è un Trump al tramonto, con alimenti ancora più salati da pagare. E’ una commedia, è una tragedia”.
Frank Bruni, già corrispondente a Roma del New York Times, ora editorialista, oggi si lamenta e si disgusta ancora, ma guarda in faccia la realtà, che è di una specie di Ercolino sempre in piedi, che più lo meni più si tira su, che più personaggioni lo attaccano, vedi Apple e Papa, più piace, più le spara grosse, più attizza gli elettori.
“Una donna mi ha detto che le piace perché è miliardario e non dovrà dire grazie a nessun rappresentante di poteri forti; un’altra che è un temerario, che non ha paura di niente e si batterà per lei; un ex militare che ora fa il camionista mi ha detto che i Veterani da decenni sono ignorati da tutti, e che Trump è diverso dai soliti politici. In un sondaggio fatto sabato scorso sulla preparazione politica ha vinto Rubio col 38 per cento, ma si votava anche sulla fiducia da dare a qualcuno fuori dal sistema, e Trump col 68 ha stravinto e preso tutto”.
BERLUSCONI PASCALE the lady is a trump
Conclude genialmente. “ I suoi fan vedono una persona che avanza senza scusarsi mai, con una forza che li fa sentire meno deboli. Vedono un vincente. E questa non è più solo un’illusione”.
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