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Serena Danna per il “Corriere della Sera”
Charles Kupchan ha lasciato da poche settimane la Casa Bianca, dove ha lavorato nel Consiglio di sicurezza e come direttore degli Affari europei per l' amministrazione Obama. Un impegno che è stato di certo «il più interessante che si possa desiderare», ma anche un' esperienza «molto vicina alla dimensione militare» per fatica e lavoro di squadra. Kupchan, 58 anni, è felice «di tornare in accademia» - alla Georgetown University - ma prova anche «un senso di perdita e disorientamento» per le prime azioni del successore del suo «capo» Obama.
Non vi aspettavate la vittoria di Trump?
«Non ho mai scartato la possibilità, ma leggevamo gli stessi sondaggi e le stesse analisi di tutti. Viviamo nell' era della sorpresa politica, quello che sembrava certo ha dimostrato di non esserlo: dall'Inghilterra agli Usa. Se ci fosse stata solo l'elezione di Trump, avremmo potuto definirla un evento eccezionale. Invece assistiamo a un cambiamento sistemico dei valori occidentali. È dal primo Novecento che non si registrava una tale ondata di odio e populismo».
Un elemento comune è la rivolta contro la globalizzazione, che non è iniziata l'anno scorso.
«Sapevamo che la globalizzazione produce vincitori e sconfitti e mina il benessere della classe lavoratrice. L'establishment non ha capito l'entità dello scontento, e la soluzione ora è difficile da trovare: possiamo affidarci al salario minimo oppure credere, come dice Trump, che il protezionismo riporterà l'industria manifatturiera negli Usa, la verità è che nessuno ha risposte».
La lotta contro la globalizzazione nasce a sinistra ma sembra dominata dalle destre. Perché?
«Il discontento economico si lega all' immigrazione, e la destra generalmente offre sul tema posizioni più dure, dunque più rassicuranti. Poi c' è il terrorismo, che minaccia la sicurezza dell' Occidente: i partiti conservatori sanno come capitalizzare la paura contro i musulmani. Infine, c’è l' elemento del leader forte, tipico dei movimenti reazionari, che sembra tornato popolare...».
Cosa la preoccupa di più?
«Non credo a chi parla di fine della storia o di scontro di ideologie. Quello che mi ha sorpreso, e francamente non immaginavo, è la debolezza interna del nostro sistema: i pilastri democratici stanno traballando. Pur avendo idee spesso opposte, democratici e repubblicani non hanno mai messo in discussione l'ordine liberal-democratico su cui si basa il mondo occidentale emerso dalla fine del Secondo conflitto mondiale: il rispetto verso le istituzioni, la legge, la libera stampa. Il 2017 è l' anno che potrebbe riportarci al 1945, costringerci a domande dolorose che mai avremmo pensato di porci nel XXI secolo; ad esempio se l' esistenza stessa della Ue sia in pericolo e l'America sia destinata a mutare il suo Dna».
Lei cosa crede?
«Io sono ottimista per ragioni di teoria politica. Il primo vantaggio di una società democratica è che è in grado di autocorreggersi. Viviamo in un sistema di "controllo e bilanciamento reciproco" tra i poteri dello Stato che proteggerà l'America dal metodo rivoluzionario di Trump».
Il presidente però sembra sfidare anche quel sistema. Pensiamo al licenziamento della «ministra» Sally Yates.
«Il presidente ha già dimostrato che intende testare i limiti dell' autorità esecutiva e mettere in discussione i principi-base in maniera sistematica. Proprio per questo, le corti, i legislatori, i coraggiosi pubblici ufficiali, i media, devono sfidarlo continuamente.
Tuttavia ragioni di ottimismo arrivano anche dalla demografia: la popolazione americana sarà sempre di più composta da immigrati che arrivano dall' Asia, dall' America Latina e che vogliono una società aperta e libera. Il futuro degli Usa si è sempre basato su innovazione, educazione, tecnologia. Continuerà a essere così».
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