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1 - MEDIO ORIENTE, PARIGI SPINGE PER I DUE STATI
Paolo Levi per “la Stampa”
Oggi più che mai bisogna «impegnarsi per una soluzione a due Stati» e «astenersi da passi unilaterali»: l'appello è arrivato dalle oltre 70 delegazioni presenti alla conferenza internazionale sul Medio Oriente di Parigi, l'iniziativa voluta dalla Francia nel tentativo, per molti difficile, di rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi, a cinque giorni dall'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua minaccia di trasferire l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.
All'iniziativa parigina che ha fatto infuriare il premier israeliano Benjamin Netanyahu erano presenti François Hollande, il segretario di Stato Usa (uscente) John Kerry, l'alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, e gli esponenti di tutti i Paesi del G20 - incluso il ministro Alfano - e della Lega Araba. Un appuntamento in apparenza ambizioso, se non fosse per un unico non trascurabile dettaglio: l'assenza dei diretti interessati, vale a dire israeliani e palestinesi, convitati di pietra insieme alla nuova amministrazione Usa.
Implacabile è arrivata la stroncatura di Netanyahu. L'appuntamento di Parigi è «futile» e «allontana la pace», ha tuonato il premier israeliano denunciando da lontano un'iniziativa concordata «dai francesi con i palestinesi allo scopo di cercare di imporre a Israele condizioni inconciliabili con i nostri interessi nazionali». Ma che a suo avviso riflette anche «gli ultimi battiti del mondo di ieri. Il domani avrà un altro aspetto, e il domani è molto vicino»: implicita allusione all' imminente avvento di Trump.
Clamorosa l'assenza di Abu Mazen, che pur presente a Parigi, è stato invitato dall'Eliseo a tenersi lontano dal centro conferenze, per non avvelenare ulteriormente i rapporti con Israele. Delicato esercizio di equilibrismo diplomatico in perfetto stile Hollande che ha preferito incontrare il leader palestinese in separata sede.
CAMPAGNA BACI BENETTON ABU MAZEN E NETANYAHU jpeg
Aprendo i lavori, il capo dell' Eliseo ha tuttavia invitato «il mondo a non rassegnarsi allo status quo», anche se oggi il «più antico» dei conflitti in Medio Oriente sembra passato in secondo piano rispetto a quelli in Siria o Iraq. Molti Paesi arabi presenti hanno insistito affinché nella dichiarazione finale fosse inserito anche solo un accenno di censura alla possibilità che Trump possa rendere operativa la sua idea di considerare di fatto Gerusalemme capitale di Israele.
Alla fine, davanti all’opposizione di Kerry, si sono convinti a cedere, ma il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault ha dovuto fare qualche sforzo in più esponendo diplomaticamente la Francia: il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme - ha avvertito - «sarebbe una decisione molto gravida di conseguenze» e una «provocazione». «Il nostro primo obiettivo - ha martellato Hollande - è ripetere con forza che la soluzione a due Stati è la sola possibile».
Alfano ha insistito sul ruolo dell'Italia, determinante nel far emergere una «posizione equilibrata». Per il titolare della Farnesina, il problema del Medio Oriente non può ridursi agli insediamenti israeliani: «C'è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele». Alfano ha ribadito infine la necessità di «negoziati diretti».
2 - GERUSALEMME ADESSO TEME UN ALTRO SGAMBETTO DI OBAMA
Giordano Stabile per “la Stampa”
Un colpo di coda dell'Amministrazione Obama che «pianterà l'ultimo chiodo nella bara del processo di pace». Vista da Gerusalemme Parigi è lontana, e la Conferenza è il dispetto finale di un presidente che cerca soltanto di ostacolare i cambiamenti promessi da Donald Trump, primo fra tutti lo spostamento dell' ambasciata americana nella Città Santa. Israele ha cercato prima di ignorare, far passare sotto traccia il summit voluto dal presidente francese François Hollande. Ma nel giorno del vertice il fuoco di sbarramento si è fatto più intenso.
Gli ambienti diplomatici temono una nuova risoluzione Onu prima della scadenza del mandato di Obama. Per l'ex ambasciatore negli Stati Uniti Michael Oren la stessa conferenza «non sta in piedi, è assurda». È come, ha sintetizzato, «se Israele tenesse un summit sullo status di un dipartimento d'oltremare francese, ma senza la Francia, e dichiarasse che l' unica soluzione è l'indipendenza» di quel territorio.
Ma è soprattutto la possibile iniziativa all'Onu a destare preoccupazioni. Danny Danon, ambasciatore al Palazzo di Vetro ha avvertito che «i sostenitori dei palestinesi stanno cercando nuove misure anti-Israele».
Ma ci sono anche preoccupazioni per i contenuti della Conferenza. Soprattutto sulla rigidità per quanto riguarda i confini del 1967: «Non c' è niente di più assurdo che considerare il Muro del Pianto e il Quartiere ebraico nella città vecchia di Gerusalemme come "territori palestinesi occupati"», spiega una fonte diplomatica a Gerusalemme.
E ci sono forti dubbi anche sulla reale volontà di Abu Mazen di arrivare a un accordo. Nel 2008 l'ex premier Ehud Olmert «aveva offerto il 97 per cento» della Cisgiordania, ricorda la fonte, e il presidente palestinese aveva rifiutato. Benjamin Netanyahu, che ha bollato come «futile» la Conferenza, non è certo disposto a offrire di più ma è anche vero che tutti i suoi inviti a far ripartire i colloqui bilaterali «sono caduti nel vuoto».
Il governo israeliano insiste sulla necessità di «scambi di territori». Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha proposto che avvenga anche con zone «degli arabo-israeliani» in modo da conservare però Gerusalemme Est, dove gli abitanti ebrei sono ormai 150 mila contro 250 mila palestinesi. Lieberman - che a differenza di Netanyahu è contrario alla soluzione «due popoli, due Stati» prevista dagli accordi di Oslo - ha anche offerto un «grande piano di sviluppo per la zona C», la parte dei Territori sotto controllo diretto israeliano, per «migliorare le condizioni di vita dei palestinesi».
Il vero nodo resta però Gerusalemme. La promessa di Trump di spostare qui l' ambasciata Usa è vista come primo passo del riconoscimento della Città Santa come capitale «unica e indivisibile» dello Stato Ebraico. La dichiarazione finale di Parigi, che non insiste sullo stop agli insediamenti ebraici nei Territori, è stata accolta con sollievo dal governo Netanyahu. Ma restano paure per il colpo di mano finale di Obama. L' ipotesi che circola, spiega l' editoralista Seth J. Frantzman del Jerusalem Post, è che «il testo finale di Parigi venga trasformato in una risoluzione e portata all' Onu». Kerry ieri sera ha tranquillizzato il premier israeliano su questo punto ma i cinque giorni che separano dall' avvento dell' era Trump sembrano ancora lunghissimi.
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