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Pino Corrias per Vanity Fair
Probabile non abbiate letto - se non con qualche lente di ingrandimento - che Giovanni Agnelli, defunto dieci anni orsono e appena commemorato come un antico re, nel Duomo di Torino, dal vescovo e dal presidente Giorgio Napolitano, possedesse un conto segreto "da 1 miliardo di euro" nella filiale Morgan Stanley di Zurigo, come hanno appena scritto un paio di magistrati milanesi. Che quei soldi esistessero lo grida ai quattro venti la figlia primogenita, Margherita, che a suo tempo fece scandalo intentando causa alla madre Marella, proprio per recuperare la sua parte di cassa.
Narrativamente la storia di Giovanni Agnelli varrebbe molti libri, molti film e almeno una riflessione, non fosse altro per il peso che ha avuto nei disastri italiani. Cominciando da questa faccenda dei soldi espatriati - "un patrimonio immenso", secondo i magistrati - che a dispetto dei suoi velieri, della sua erre blesa, dei suoi capricci regali, ne fanno un autentico italiano.
Anzi un campione. Che in vita ereditò una immensa fabbrica di automobili e la portò sull'orlo del fallimento, nonostante le leggi a suo favore e i miliardi di aiuti di Stato. Leggi e miliardi incassati con una grazie squisita. E un distacco che generava ammirazione.
Specie tra le signore, tra i giornalisti galoppini, tra gli arrampicatori sociali. E naturalmente tra i politici - sempre impacciati al suo cospetto - che non vedevano l'ora di ronzargli attorno, di respirare il suo profumo. Di innalzarlo a senatore a vita affinché (finalmente) si abbassasse tra loro.
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