DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Goffredo De Marchis per “la Repubblica”
Il tormento della minoranza divisa è sintetizzato nella domanda che Rosy Bindi rivolge a Pippo Civati: «Adesso come lo troviamo il leader di questo dissenso? ». Il giorno che Matteo Renzi ha scelto per la sfida finale con i ribelli finisce con un paradosso: mai l’opposizione al premier era stata tanto corposa visibile e determinata fino a raggiungere la quota di 38 non voti alla fiducia (più del 10 per cento del gruppo parlamentare). Il fronte antirenziano però è di fronte a nuove scelte altrettanto dolorose: la scissione, la battaglia sui territori, i possibili gruppi autonomi. Oppure rischia di alzare bandiera bianca.
La notte tra martedì e mercoledì è stata piena di piccoli drammi politici e personali. Molti hanno attaccato Roberto Speranza per la sua scelta di dire no al governo Renzi. «Avevi detto che saresti stato leale. E quando il tuo segretario mette la fiducia non puoi non votarla», gli dice Enzo Amendola.
«Hai sbagliato tutto», gli rinfacciano bersaniani di ferro come Maurizio Martina, Matteo Mauri, Luciano Pizzetti, che pure erano i deputati più vicini al capogruppo dimissionario. Sono voci che contano perché i tre dirigenti rappresentano una fetta della Lombardia legata all’ex segretario. Lasciando la “Ditta” si portano via una regione chiave per possibili strappi futuri, tanto più per immaginare una scissione. Speranza è amareggiato, deluso per le critiche perché considera il premier l’autore del misfatto.
«Ha avuto i voti sulle pregiudiziali, un margine ampio e ha messo comunque il voto di fiducia. Un errore premeditato». Accusa i suoi compagni di Area riformista di aver tradito: «Abbiamo firmato in 80 una lettera a cui Renzi non ha mai risposto. Se non ci fossimo divisi avremmo ottenuto il risultato». Invece la replica è una lettera di 50 deputati della stessa corrente che dicono: noi votiamo sì al governo. Punto e basta. Ovvero, non è in gioco la democrazia.
Speranza adesso è passato dai “fasti” della stanza da capogruppo a una scrivania vicino all’help desk, l’ufficio che aiuta i neodeputati a sbrigare alcune faccende pratiche. Lo raccontano con malizia alcuni dei suoi vecchi amici come dire: “guarda che fine ha fatto”. Lì si riuniscono gli irriducibili per valutare le prossime mosse. Civati vorrebbe lo strappo definitivo: un pugno di onorevoli che passa al gruppo Misto e un nuovo gruppo al Senato con ex Pd ed ex 5stelle che faccia saltare il governo.
A Palazzo Madama bastano 10 componenti per creare una nuova formazione e la maggioranza si regge per un soffio: ieri, sulla riforma della pubblica amministrazione, l’esecutivo si è salvato per un voto. Se nasce una Cosa al Senato, l’esecutivo dovrebbe chiedere i voti a Verdini e Bondi per sopravvivere. E non solo sulla riforma costituzionale. Questo certificherebbe la mutazione genetica del partito.
LETTA-BINDI-BERSANI ALL'ASSEMBLEA PD
“Nuovo Ulivo” è la formula magica che si usa per identificare una corrente dentro il Pd in grado di lottare con la leadership di Renzi. Che potrebbe mettere insieme ex grillini e Sinistra ecologia e libertà, già protagonista dei governi Prodi. È soprattutto una suggestione capace di tenere insieme le anime della minoranza, dargli un minimo di collante.
Dunque si può partire da qui. Anzi, si è già partiti perché «certo Enrico Letta non è stato con le mani in mano per 12 mesi. Ha avuto rapporti col mondo cattolico, con le associazioni. Ha creato una rete», dice un lettiano. Una rete simile a quella che promosse la scalata di Romano Prodi.
«Ma adesso Enrico se ne va a Parigi», rispondono gli scettici. Un progetto scissionista o di partito nel partito ha bisogno poi di camminare sulle gambe della base. E di chi la rappresenta nelle regioni. Ha retto la Calabria, con tre deputati su 4 rimasti fedeli alla rotta degli irriducibili, ma la Puglia è rimasta scoperta (senza Ginefra e senza Boccia, favorevoli alla fiducia) e la Lombardia è andata.
La bilancia nelle regioni è fondamentale anche per le liste future, per stabilire le candidature delle prossime politiche. Comunque i 38 ribelli sono una base da cui partire. Sono molti di più dei 5 pronosticati dal capogruppo probabile Ettore Rosato.
Hanno gettato nel panico i renziani, tanto da farli tremare per delle assenze innocenti. Enzo Lattuca e Piero Martino per esempio hanno mandato in tilt il pallottoliere del governo solo perché si sono presentati alla seconda chiama. Possono crescere, i 38, nel voto finale sull’Italicum che non prevede fiducia. La prima battaglia che determinerà gli equilibri del Pd sarà quella sul nuovo presidente dei deputati.
«Se è Rosato, che se lo merita, rischia di prendere i 190 voti dell’ultima assemblea. Gli mancherebbe un terzo dei deputati. Un pessimo segnale per Renzi», avverte un dissidente. E stavolta il premier non può promuovere un esponente della minoranza dialogante. Verrebbe vissuta come una provocazione. Insomma, oggi i ribelli si sentono più forti, anche se vince Renzi.
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