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1. QUELLA VECCHIA FRATTURA NATA DALL’ASSE OSTILE TRA L’ITALIA E CAMERON
Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera”
renzi all assemblea degli industriali a brescia
Napoli, 8 giugno, in piena campagna per l’elezione del presidente della Commissione europea. Parla Matteo Renzi: «Il Ppe vuole sostenere Juncker? Bene. Che cosa intende fare lui nei prossimi 5 anni? Qualcuno che vuole continuare con le politiche degli ultimi anni non avrà il nostro consenso».
Venti giorni dopo, il consenso ci fu. Ma intanto, era già iniziato tutto. Cioè l’inseguimento di Renzi a Jean-Claude Juncker con critiche e battute mai ben comprese a Bruxelles: e con quel sì finale alla sua nomina «ma solo con un documento che indichi dove vuole andare l’Ue». Come se l’altro, già approvato dalla maggioranza dei leader Ue, fosse un piazzista a zonzo con la valigetta vuota.
Forse non c’entrano gran che, con le parole pronunciate ieri da Juncker e con il suo volto mai così teso, quasi indignato, le scintille scoccate giorni fa tra il suo predecessore, Josè Manuel Barroso, e lo stesso Renzi. Quando Renzi fece diffondere la lettera riservata di Bruxelles sul piano di Stabilità italiano, e poi avvertì: «Basta lettere segrete». «Non sono a capo di una banda di burocrati», dice ora Juncker, e così difende il prestigio della sua Commissione e anche di Barroso, ma la chiave di tutto sta appunto nel passato.
«Non c’è un problema Juncker, è uno dei nomi — dichiarava Renzi durante la campagna di scelta per la Commissione —. I problemi emersi dal voto europeo sono altri». «Uno dei nomi» era poi quello sostenuto nell’Europarlamento dalla maggioranza, e fuori da quelle mura dalla Germania, dai Paesi scandinavi, da vari Paesi dell’Est. Dopo quelle parole, silenzio di Juncker. Ma non oblio, probabilmente.
Juncker è infatti noto, da quando era presidente dell’Eurogruppo, per l’esperienza, l’abilità negoziale, ed anche per l’eccellente memoria. Così erano in diversi, qui, a pensare che ricordasse certi complimenti fiorentini, e che prima o poi si sarebbe levato i proverbiali sassolini dalle scarpe. Qualcuno è arrivato a pensare che la domanda sul governo italiano rivoltagli da Manfred Weber, capogruppo del Ppe e suo buon amico, fosse stata concordata in precedenza. Ma ovviamente è un’ipotesi non dimostrabile.
I fatti, invece, sono tutti là, da interpretare. E anche le dichiarazioni del passato più o meno recente. Cinque mesi fa, subito dopo le elezioni europee, Renzi è da subito accanto a David Cameron, il premier britannico, e al presidente francese François Hollande, nell’opposizione alla «linea Merkel» che predilige appunto Juncker come futuro presidente della Commissione. Cameron arriva a dire che, se verrà eletto Juncker, la Gran Bretagna potrà anche uscire dall’Ue. Renzi naturalmente non lo segue su questa pista ideale da go-kart, ma non è molto meno determinato nel difendere le ragioni della sua opposizione.
A Bruxelles o Strasburgo, la frizione fra un leader politico della Ue e uno dell’Italia non è certo una novità: prima e dopo il «kapò» regalato da Silvio Berlusconi all’attuale presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, è stato quasi un susseguirsi continuo di rimbrotti e spintoni reciproci.
Ma nel caso di Renzi e Juncker, chiunque porti la responsabilità della frizione, nel giro di pochi mesi si è già superato l’usuale livello di tensione. Certo possono contare in parte le differenti appartenenze politiche: Juncker è cristiano-democratico del Ppe, Renzi sta nel centrosinistra, nel Pd. E poi anche qualche distanza caratteriale può giocare un suo ruolo.
Però c’è pure un’altra cosa: lo stile personale di Renzi, che in Italia desta spesso legittime simpatie, non combacia con certi protocolli di Bruxelles. Fin nelle cose più lievi: «Guardatelo — racconta divertito un funzionario di qui —, quando entra al Consiglio Ue si abbottona sempre la giacca stretta, e si guarda intorno soddisfatto. Chi faceva così? Ma Silvio, no?…».
2. IL RISCHIO DELL’ISOLAMENTO DOPO IL MONITO DI BRUXELLES
Massimo Franco per “il Corriere della Sera”
La durezza del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, nei confronti del premier Matteo Renzi, sorprende e preoccupa. Stupisce perché emerge alcuni giorni dopo gli ultimi attacchi del capo del governo ai «burocrati di Bruxelles». E allarma perché si registra ad appena quarantotto ore dall’insediamento di Juncker e si rivolge al presidente del Consiglio della nazione che guida l’Europa per un semestre. Se il successore di José Manuel Barroso ha ritenuto di poter usare parole così ruvide nei confronti di Renzi, significa che riteneva di poterlo fare.
Detto altrimenti: pensa o sa di avere dietro l’Europa che conta, unita nell’insofferenza contro le «critiche superficiali» di Roma. L’altro aspetto che fa riflettere è il modo scelto dal neopresidente per contestare le tesi renziane. «Se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati il giudizio sul bilancio italiano sarebbe stato molto diverso», dice.
E lascia capire che solo una sorta di «generosità» politica ha permesso di attenuare valutazioni più impietose. «A Renzi dico che non sono il capo di una banda di burocrati: sono il presidente di un’istituzione che merita rispetto, non meno legittimata dei governi». Ha tutta l’aria di un richiamo a misurare i giudizi sull’Ue; e a rendersi conto che, se non trova alleati, rischia l’isolamento.
È vero che la Commissione ha anche strigliato il premier britannico David Cameron per il suo rifiuto di pagare i contributi europei. Ma stranamente, la Francia che pure ha dichiarato esplicitamente di non voler rispettare il Patto di stabilità, non ha ricevuto lo stesso trattamento. È giusto contestare questo doppio standard vistoso; ma ci si deve anche chiedere perché venga applicato di nuovo a danno dell’Italia, come ai tempi di Silvio Berlusconi. Il semestre di presidenza è stato sempre considerato una vetrina internazionale per il Paese che guida l’Ue.
A nemmeno due mesi dalla scadenza, il colpo che arriva da Bruxelles somiglia a un sasso scagliato contro le vetrate di palazzo Chigi.
E si aggiunge alle previsioni economiche diffuse ieri dalla Commissione. C’è una sfasatura di oltre mezzo punto di Pil tra quanto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan vede da qui al 2017, e le proiezioni di Bruxelles. Il berlusconiano Renato Brunetta ne deduce che «l’Ue non crede a Renzi e Padoan». Lo stesso Movimento 5 Stelle, che pure non ha mai smesso di attaccare l’Europa e la moneta unica, approfitta delle parole di Juncker per puntare il dito strumentalmente sul premier. È un’offensiva che non aiuta gli sforzi di palazzo Chigi, stupito dalle critiche di Bruxelles.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, si limita a ribadire: «Confidiamo che le nostre previsioni siano adeguate. Non ho nulla da aggiungere se non quello che è scritto nella Legge di stabilità». Renzi ribadisce: «In Italia ce la stiamo giocando, la partita non è vinta né persa ma stiamo segnando dei gol. Non vado con il cappello in mano a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare. L’ho detto a Barroso e Juncker». Se non è una sfida, le somiglia. Il problema è se l’Italia abbia la forza per sostenerla senza diventare il capro espiatorio di errori commessi anche dall’Europa. E dai suoi burocrati.
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