DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Filippo Facci per “Libero Quotidiano”
Già fa abbastanza ridere che un magistrato ricorra al Tar (del Lazio) per ribellarsi al Csm: perché rende l’idea di come la giurisdizione italiana sia ormai impazzita da tempo. Se però il ricorrente è il pm Nino Di Matteo, beh, allora capisci che è tutto normale, anzi, è normalmente anormale.
Il ricorso del pm palermitano, rilanciato ieri da amici giornalisti, in pratica dice: ma come, non mi avete preso in considerazione per uno dei tre posti alla Superprocura antimafia? Ma non avete visto che curriculum ho? Ecco, il punto è che forse il Csm l’ha visto: e, messa nero su bianco, la verità forse è spiccata meglio. Il suo curriculum antimafia, in concreto e lontano dai doping mediatici, è semplicemente quello che è. Ora non ci sogniamo nemmeno di riassumerlo. Tantomeno ritorneremo sul vergognoso processo per la strage di via D’Amelio, completamente sbagliato sin dal principio - con innocenti erroneamente condannati - anche perché un certo pm, Antonino Di Matteo, fece la sua parte nel non capire che il teste chiave era un millantatore.
Colpisce, semmai, come i giornali e gli avvocati di Di Matteo abbiano cercato d’infilare tra le voci di accreditamento anche la postura auto-martirizzante del magistrato. «Non sono valsi a nulla i tanti rischi personali corsi», riportava ieri La Stampa. I legali di Di Matteo, poi, hanno scritto di «una minimizzazione» da parte del Csm «degli anni di sacrifici, rischi e impegno in cui si è articolata la carriera del ricorrente», sintetizzati insomma nelle consuete «minacce rivolte dalla mafia».
Tutta roba che si presta, invero, a valutazioni molto soggettive e purtroppo non a punteggi: noi, per esempio, alle minacce mafiose contro Di Matteo abbiamo già scritto di non credere, soprattutto se riferite ai bofonchiamenti senili del Totò Riina galeotto. Noi pensiamo che le presunte minacce a Di Matteo siano tutta una montatura, al pari di quelle rivelate ogni venti minuti dal pentito di turno, e mai dimostrate. E se è vero che anche le nostre opinioni ovviamente non fanno punteggio, figurarsi se possono farlo le 91mila firme raccolte dalle varie associazioni antimafia a sostegno del magistrato.
A parte questo, a noi, sorgono altri interrogativi. 1) Quasi tutti i giornali hanno scritto come se - per i tre posti vacanti alla Superprocura antimafia - fossero stati prescelti tre candidati e Di Matteo fosse arrivato quarto, quasi un trattamento ad personam: perché non rilevare che i candidati erano ben 46 e che Di Matteo è banalmente arrivato undicesimo?
2) Tra i bocciati c’è anche il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, non proprio il primo che passa: Di Matteo pensa di meritare più di lui? E pensa, dunque, di meritare più dei 41 altri magistrati candidati? La domanda è lecita, visto che è l’unico ad aver fatto ricorso, ci risulta.
3) Nel ricorso peraltro si fa un chiaro riferimento a minacce di morte subite anche da parte del latitante Matteo Messina Denaro. È troppo ricordare che Di Matteo, direttamente, non ha Messina Denaro tra gli oggetti delle sue indagini? E che a rischiare la pelle, semmai, è il pm palermitano Teresa Principato, che su Messina Denaro indaga effettivamente anche se non è amica del gruppetto della «trattativa»?
4) Siccome non abbiamo letto il ricorso integralmente - quello l’ha letto solo il Fatto Quotidiano - ci resta la curiosità professionale di sapere se i legali di Di Matteo abbiano accluso, tra i meriti di curriculum, anche i due recenti libri scritti evidentemente nei ritagli di tempo, e poi le interviste rilasciate su temi politici, e ancora la partecipazione a convegni organizzate dai Cinque Stelle. Per curiosità. Questo piacerebbe sapere: in attesa che, sul miliardesimo caso Di Matteo, si pronunci l’organo di autogoverno della magistratura che attualmente risulta più alto in rango, o così pare: il Tar del Lazio.
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