TUTTO IL RESTO È BOIA - NON SOLO ‘’JOHN IL JIHADISTA’’: RAGAZZI PARTITI PER ANDARE A UNA FESTA E RIAPPARSI IN UN VIDEO CON PROCLAMI DI MORTE, FIGLI DELLA CLASSE MEDIA ARRUOLATI ATTRAVERSO IL WEB - CHI SONO GLI OCCIDENTALI ANDATI A COMBATTERE PER IL CALIFFO (LA RELIGIONE C’ENTRA POCO)

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1. TUTTI I JOHN DELLA JIHAD

Anais Ginori per “la Repubblica

 

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La linea d’ombra si assottiglia sempre di più. Le vecchie griglie di comprensione — la fragilità psicologica, le condizioni sociali disagiate, la rabbia che cova — non bastano più a spiegare, né a prevedere.

 

«Il profilo tipo dell’occidentale che si arruola nella jihad è rapidamente cambiato », racconta Dounia Bouzar che ha appena pubblicato un rapporto commissionato dal ministero dell’Interno per smentire alcuni cliché sui giovani combattenti partiti per la Siria, e analizzare le tecniche di indottrinamento usate dai gruppi islamici radicali. Titolo dello studio, quasi cento pagine di dati ed esempi: La Metamorfosi. 

 

È l’impercettibile ma drastica mutazione culturale e ideologica di ragazzi insospettabili come Maxime Hauchard, il normanno ventiduenne diventato boia dell’Is, cresciuto ateo in una villetta a schiera di provincia, con una madre che lavora alla Asl e un padre impiegato in un’impresa edilizia.

 

L’antropologa snocciola nel rapporto, realizzato insieme a Christophe Caupenne, ex capo dei negoziatori delle forze speciali antiterrorismo, oltre 160 casi di famiglie francesi che hanno scoperto di avere in casa un aspirante jihadista. Ragazzi che sono partiti per andare a scuola o a una festa, e sono riapparsi in un video su YouTube con proclami di morte.

 

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La maggioranza dei casi (67%) proviene dalla classe media e solo il 16% da ambienti sociali disagiati. Il 63% ha tra 15 e 21 anni e il 44% sono donne. Anche lo stereotipo dei “soggetti fragili” appare superato. Come Hauchard che aveva frequentato medie e liceo con ottimi voti, era amico del figlio del sindaco, aiutava ad organizzare le feste di paese, aveva fatto il cameriere da “Delice Pizza”.

 

La religione non è il principale motore: l’80% delle nuove leve proviene da famiglie atee e nel 91% dei casi non hanno mai frequentato una moschea, ma sono stati arruolati solo attraverso Internet. Persino i discorsi sulle prime o seconde generazioni di immigrati sembrano superati: solo il 10% dei casi ha genitori non francesi. Per chi vuole cercare di capire è un salto nell’ignoto.

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«Il nuovo discorso dei terroristi punta a persone che stanno bene e vivono in famiglie agiate», sintetizza Bouzar che da anni studia l’integralismo islamico, a cui ha dedicato diversi saggi. L’ultimo s’intitola Ils cherchent le paradis, ils ont trouvé l’enfer . Giovani che confondono paradiso e inferno. «Uno studente in medicina può diventare uno jihadista », ha scritto nel libro l’antroquentato pologa. E ora sembra una profezia vedendo le immagini di Nassim Muthana, studente in medicina a Cardiff arruolato nel plotone dei boia dell’Is. «Nessuna famiglia — conclude Bouzar — può sentirsi al riparo».

 

Ogni percorso fa storia a sé, ma ci sono alcune inquietanti analogie. Molti partono con un ideale umanitario o romantico. I messaggi di Al Nusra, la cellula in Siria di Al Qaeda, puntano sull’impegno per salvare le popolazioni, il soc- corso ai più deboli.

 

Quelli dell’Is propongono un ideale guerriero, con simboli cavallereschi come il leone o immagini del film Il Signore degli Anelli per difendere il nuovo fantomatico Stato tra Iraq e Siria. Viene spesso citata una frase di Khalid Ibn Al Walid, l’invincibile guerriero del primo califfato, il compagno di Maometto che vinse tutte le guerre, cambiando la mappa del Medio Oriente: «Porto uomini che desiderano la morte come voi desiderate la vita».

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Le poche, scarne notizie alle famiglie arrivano via Skype. Nella prima telefonata, nota il rapporto, le nuove leve dicono ai genitori le stesse frasi: «Abito in una bella villa, non ho bisogno di niente. Sono nelle braccia di Allah, Allah mi protegge, sono protetto». Secondo Bouzar molti partono senza sapere davvero a cosa vanno incontro. E quando se ne accorgono è troppo tardi. «È una sorta di vacanza», ha raccontato nel luglio scorso Maxime Hauchard parlando da Raqqa con un’emittente francese.

 

I ragazzi cadono nella rete anche senza volerlo. I gruppi islamici disseminano esche online. «Riescono a stabilire link a partire da video su YouTube che guardiamo tutti, con parole chiave neutre, dalla storia dei vaccini al commercio equo e solidale». A quel punto la Jihad 2.0 inizia a diventare realtà. Il rapporto consegnato al ministero dell’Interno analizza tre categorie di video. Ci sono filmati che tendono ad accreditare la teoria del complotto in cui viene descritto un Occidente bugiardo, corrotto. Una seconda tappa dell’indottrinamento punta su presunte “società segrete” che governerebbero il mondo, dalla massoneria agli Illuminati.

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Lentamente si instaura un dubbio, una sfiducia rispetto alla propria cultura. I giovani si allontanano dalla famiglia, dagli amici. Incominciano ad avere una doppia vita finché l’identità del gruppo islamico sostituisce l’identità individuale. La tappa finale, continua lo studio, è il meccanismo di disumanizzazione. Bouzar cita alcuni video dell’Is che mischiano immagini vere a popolari videogiochi, come Assassin’s Creed o Call of Duty .

 

«Gli ostaggi decapitati — conclude l’antropologa — non sono più uomini, ma sagome virtuali da annientare». Il rapporto finisce senza offrire soluzioni. Solo alcune chiavi di lettura per comprendere, o almeno tentare.

 

2. WEB RABBIA E VIDEOGAME: COSì SPROFONDANO NELL’INCUBO

Roger Cohen per “The New York Times” pubblicato da “la Repubblica

 

In cosa consiste l’incubo della decapitazione di un altro americano, Peter Kassig, da parte dell’Isis? Nell’immagine in sé, ovviamente. Nel caso di Kassig, si vede una testa mozza insanguinata, ai piedi di un assassino incappucciato. Nelle altre esecuzioni abbiamo visto il coltello serrato alla gola, le vittime ferite che si accasciavano, la mano sinistra che li sgozzava; e abbiamo sentito la voce cupa e monocorde del boia tronfio. Non abbiamo quindi bisogno di immaginare come sia morto questo giovane americano idealista, un volontario appena convertitosi all’Islam.

 

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Ma l’immaginazione non si placa; è in balia del vortice della sofferenza dei prigionieri, li rappresenta nei particolari mentre subiscono la tortura della testa costretta sott’acqua o altre torture; è afflitta dall’immagine evocativa delle tute arancioni e dal modo in cui questi perfidi carnefici medioevali reclutano proseliti nelle tenebre del grande disorientamento dell’America post 11 settembre.

 

Il male dello Stato islamico si palesa soprattutto nella sua astuzia. Così come abbiamo concentrato in tre cifre la strage del settembre 2001 per renderla più familiare, ora subiamo la banalità Monty-pitonesca del soprannominare il boia dell’Isis “Jihadi John”, una piccola allitterazione volta ad alleviare l’angoscia.

 

Dobbiamo dunque immaginare questo “Jihadi John”, prima, mentre fa fatica a tirare avanti e a integrarsi nell’Inghilterra piovigginosa, disoccupato, con un mutuo da pagare e arrabbiato con tutto il mondo, e poi, sotto lo splendido sole levantino, dove tutto è chiaro e luminoso, nelle prime fila di qualche movimento di Risorgimento sunnita impegnato a sottomettere il mondo al suo marchio sanguinario dell’Islam wahhabita. È diventato parte di qualcosa di più grande. Ha una missione. Ha la licenza di uccidere gli infedeli (anche quelli convertiti all’Islam come Kassig) in nome del suo credo religioso. È un rivoluzionario molto certo di questa missione.

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Quanti altri ce ne sono in giro come lui, in attesa di essere adescati in un pub di Bradford, o nei ghetti periferici di una qualunque città francese o in una Libia a pezzi?

 

Forse questa domanda comincia a toccare la vera essenza dell’incubo. Per quanto orrende siano state le immagini delle cinque esecuzioni, non spiegano in sé l’entità della reazione in Occidente. Tutto sommato, film e videogame hanno reso le nostre società avvezze alla violenza brutale. Questa non desta scalpore.

 

In realtà, insopportabile è la sensazione che l’America, a 13 anni dall’11/9, si sia morsa la coda; che, come nel gioco della caccia alla talpa, l’eliminazione di una tana non fa altro che generarne una nuova altrove; che l’ideologia di Al Qaeda si rifletta ancora in un mondo arabo paralizzato, in cui l’equilibrio tra sunniti e sciiti sia stato rotto dall’invasione americana dell’Iraq.

 

 

Di più: che la perdita in Iraq di 4500 soldati americani e più di 100 mila iracheni non abbia portato ad alcuna vittoria o chiarezza, ma solo a una società e a un Paese frammentato; che la Primavera araba (al di fuori della Tunisia), che aveva promesso una via d’uscita dal confronto alimentato dalla dittatura pseudo-militare e dai politici dell’Islam per rafforzarsi, sia degenerata nella frustrazione e nella rabbia degli estremisti; che “Jihadi John”, per ora, prevalga sul “Maometto moderato”.

 

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L’incubo, insomma, non ha tanto a che fare con l’immagine barbara in sé, quanto con la sensazione di umiliazione, impotenza, déjà vu e della conseguente esasperazione.

Il presidente Obama ha giurato di «distruggere » lo Stato Islamico. Ma anche se ci riuscisse, e per ora i mezzi impiegati non sembrano essere adeguati all’obiettivo, con quale forma cancerogena riaffiorerebbero le idee del califfato?

 

Dati i tentativi falliti di stabilire un nuovo tipo di cittadinanza post-settaria nelle società della regione, non c’è motivo di credere che l’incubatore arabo del violento estremismo islamico sarà meno fertile. La gioventù abbinata alla frustrazione e a un decennio di conflitti, alimenta un istinto suicida.

 

Daniel Bolger, un generale americano reduce dalle guerre in Iraq e Afghanistan, ha scritto un libro intitolato Perché abbiamo perso, in cui dice senza mezzi termini: «Sono un generale dell’esercito degli Stati Uniti e ho perso la guerra globale contro il terrorismo ». Tutto quel sangue e valore americano non si esaurisce in un mugolio ma in una affermazione forte.

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Ma qual era il fine di questa guerra? Se era la sicurezza dell’America, non può essere considerato un fallimento. Se era la ricostruzione della società in Iraq e Afghanistan e l’eliminazione della minaccia terrorista contro gli Stati Uniti, l’obiettivo è stato mancato di molto. Le esecuzioni dello Stato islamico, nell’inconscio americano provocano la sensazione disperata di essere stati convinti con l’inganno a spingersi troppo oltre.

 

L’incubo ha molti strati. Le parole di Kurtz in punto di morte — “Che orrore! Che orrore!” — nel Cuore di tenebra di Joseph Conrad possono essere interpretate in molti modi, ma nessuno di questi può negare la sua percezione finale delle forze immani fuori dal suo controllo e dalla sua capacità di comprensione.

2014 The New York Times Traduzione Ettore Claudio Iannelli