ALLA FINE, SIAMO MORTI DEMOCRISTIANI: FUORI DAL GOVERNO COMUNISTI E FALCHI PDL, PRONTI A VENDICARSI

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1. L'OPERAZIONE RINNOVAMENTO: NIENTE COMUNISTI IN SQUADRA
Massimiliano Scafi per "il Giornale"

«Primo governo di grande coalizione dal '47, prima donna ministro degli Esteri, primo ministro di colore (donna): un unicum»: la sintesi del corrispondente della Reuters da Roma, Steve Scherer, dà la misura dell'impresa, normale altrove ma epocale in Italia, che ieri si è compiuta, nel triangolo Montecitorio (dove stava Enrico Letta)-Quirinale-Palazzo Grazioli.

Un governo Pd-Pdl-Sc che premia gli ex Dc lascia a bocca quasi asciutta gli ex Ds.

Sapeva di stupire, il presidente incaricato, quando ieri ha letto in diretta tv la lista del ministri: fino all'ultimo si erano rincorse le voci sugli alti e bassi di una trattativa rapida ma sfibrante, si chi entrava e chi usciva e chi batteva i pugni per esserci. Sulla «vecchia guardia» che non mollava e i complicati manuali Cencelli da rispettare nei diversi partiti.

Alla fine, è andata in porto - con l'occhiuta benedizione di Napolitano - l'operazione «rinnovamento», escogitata come chiave per evitare la micidiale trappola dei veti incrociati e anche per - come è stato spiegato chiaramente a Silvio Berlusconi dal premier incaricato - limitare al minimo l'«implosione» del Pd, che al primo nome di «impresentabile» di centrodestra avrebbe trovato l'innesco.

«E Berlusconi è stato bravissimo, ci ha dato una grossa mano e ha giocato un ruolo inaspettato: quello del rottamatore», racconta uno di coloro che, nel Pd, hanno seguito da vicino il parto del governo Letta. Il quale si è tenuto in contatto costante con il Cavaliere e con il capo dello Stato, ed è stato coadiuvato all'interno del Pd da Pier Luigi Bersani e da Dario Franceschini.

Che è finito al ministero dei rapporti con il Parlamento e per il coordinamento dell'attività di governo, una postazione apparentemente minore ma che in realtà l'ex capogruppo si è «cucita su misura» assieme al neo-premier, e che avrà un ruolo chiave per condurre il veliero governativo tra i marosi e gli scogli parlamentari. E, compito ancor più delicato, per governare dall'esterno il gigantesco, riottoso e indisciplinato gruppo del Pd.

I malumori, va detto, sono tanti, e la lista dei ministri ne ha creati di nuovi. Anche se ora si aprirà la faticosa partita delle compensazioni (sottosegretari, viceministri, presidenti di commissione). «È il governo più democristiano della storia, noi siamo stati tagliati fuori», sibila un esponente Ds. Che promette: «Ora, e a Letta lo abbiamo spiegato con chiarezza, alla guida del partito deve andare uno di noi. Conviene anche a lui».

Un partito schierato a sinistra (i nomi che girano per la reggenza fino al congresso sono quelli di Epifani e di Fassina, entrambi robustamente legati alla Cgil) per un governo a traino centrista. La frasetta fatta trapelare da Bersani dopo l'incontro di ieri mattina, a trattative ancora aperte, con il premier incaricato («Il governo va fatto, ma non a tutti i costi») era senz'altro un modo per alzare il tiro aumentando la capacità negoziale di Letta, ma serviva anche a segnalare che l'ex segretario, e con lui l'ala ex Ds, sono pronti a tenersi un certo margine di manovra rispetto al governo Pd-Pdl.

Certo, Bersani all'ultimo minuto ha ottenuto la nomina del suo fedelissimo, il sindaco di Padova Flavio Zanonato, allo Sviluppo economico. Scelto in tutta fretta per «dare un segnale al Nord», dicono in casa Pd, ma soprattutto per sbarrare la strada a Sergio Chiamparino (e quindi a Renzi). E poi c'è il giovane turco Andrea Orlando (Stefano Fassina puntava ad un ministero economico e ha rifiutato l'Ambiente, e ora pensa al partito, dove potrebbe gareggiare per la reggenza con Epifani).

Al grande escluso D'Alema è stato dato un contentino con la nomina di Bray (che milita alla Fondazione ItalianiEuropei alla Cultura). Ma la massima attenzione, Letta e Napolitano, la hanno destinata al pacchetto di mischia destinato a sedere ai tavoli del negoziato europeo: per questo hanno voluto tre punte di diamante all'Economia (Saccomanni), agli Esteri (Bonino) e agli Affari Europei (Moavero), tutti e tre dotati grande considerazione e di reti di rapporti ad altissimo livello internazionale.


2. E BERLUSCONI INGABBIA I FALCHI
Ugo Magri per "La Stampa"

Una drammatica telefonata di Ghedini piomba in vivavoce all'ora di pranzo, mentre Berlusconi e i suoi fidi sono tutti riuniti. Voce strozzata dall'emozione e dall'incredulità: «Ma come, non vi rendete conto?».

Esplode, l'avvocato del Cavaliere: «La Cancellieri alla Giustizia è quanto di peggio ci poteva capitare. Vi avevo scongiurato in tutti i modi di non farla passare. E invece così voi state firmando l'eutanasia di Berlusconi, le sue future condanne, la sua eliminazione fisica per via giudiziaria...». Muti i presenti intorno al tavolo di Palazzo Grazioli, gli occhi appuntati su Berlusconi. La cui bocca emette un sospiro: «Questo è il pensiero di Ghedini». Sottinteso: il suo, non il mio.

Oppure: lo so bene, ma non posso farci nulla, perché «il governo deve partire». Deve. E pure in fretta. Non a caso il primo commento berlusconiano, udita la lista dei ministri, sottolinea quanto egli sia stato disponibile, verrebbe da dire servizievole: «Abbiamo trattato per la formazione del governo senza porre alcun paletto e senza impuntarci su nulla, escludendo persone che fossero già stati ministri».

Brunetta nel governo non va bene in quanto giudicato troppo «incazzoso»? Via Brunetta, nonostante sia stato l'artefice tra i massimi della sua straordinaria rimonta elettorale. Alla base Pd non garba uno come Schifani? Via, via anche Schifani. Gelmini, Fitto, la Biancofiore e la Bernini sarebbero di disturbo? Tutti accantonati senza rimpianti per far nascere un governo nel segno dei tempi attuali, composto da persone giovani o al massimo «pantere grigie», umanamente carine, politicamente corrette, che sappiano stare a tavola (è una metafora).

Anche nel centrodestra, il 27 aprile 2013 segna lo spartiacque, fissa un nuovo standard: il governo d'ora in avanti sarà solo per i «presentabili». Cioè trionfo totale delle «colombe» berlusconiane. Basti dire che ben quattro dei cinque neo-ministri Pdl (Alfano, Lorenzin, Lupi e Quagliariello) erano stati sospettati di alto tradimento per aver chiesto in autunno le primarie del partito, addirittura con una manifestazione al Teatro Olimpico (un quinto protagonista, Mauro, ha pure lui ottenuto la poltrona però in quota Monti).

I «falchi» invece restano scornacchiati. Prima Berlusconi li ha ben spremuti in campagna elettorale, e adesso li chiude sotto chiave nello sgabuzzino, da dove verranno tirati fuori in occasione delle prossime manifestazioni oceaniche, la prossima il 4 maggio a Brescia. Per cui dentro il Pdl, in queste ore, c'è l'inferno.

Musi lunghi di chi aspirava alla «cadrega» (delusione umanissima), Malox a fiumi per i «pasdaran» che si sentono vittime dell'ingiustizia, per le «amazzoni» abbandonate da Silvio, per gli scudieri più fedeli sconcertati dalla giravolta (tale la considerano) del Grande Capo. Chi insiste a trovargli una giustifica, scommette che è tutta una finta, «tra due mesi lui manderà all'aria il governo e torneremo a votare». Altri sono sicuri che l'abbia fatto per la salute delle sue aziende in debito d'ossigeno, ansiose di stabilità politica e di proventi pubblicitari legati alla ripresa.

Qualcuno, come l'impetuosa Daniela Santanché, ha usato con Berlusconi parole di amicizia ma anche di verità. Altri, vedi Brunetta, già preannunciano che non finisce qui; se lunedì non dovesse arrivare perlomeno la restituzione dell'Imu allora nessuno terrebbe più a freno la rivolta, il capogruppo (ma tutti, non solo lui) darebbe le dimissioni per votare contro la fiducia a Letta...

Paradosso dei paradossi, il successo politico berlusconiano, anzi il trionfo del Cavaliere che rientra in circolo, che pretende e ottiene pari dignità, che porta a casa ben cinque posizioni importanti, che riapre il dialogo con Monti (dal quale si è fatto convincere al sì su Saccomanni), che getta le basi del futuro Ppe in salsa tricolore, questo Berlusconi vittorioso va più di moda a sinistra che nel centrodestra.

Dove rare sono le voci pronte a dargli atto del miracolo. Gasparri è tra quei pochi, e col suo accento romanesco quasi sbotta: «Sei mesi fa eravamo spacciati, nessuno avrebbe mai immaginato di ritrovarci qui in campo che ce la giochiamo alla pari. Altro che piangersi addosso!». Silvio meriterebbe un busto al Pincio...

 

 

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