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Roberto Mania per “la Repubblica”
Scontro rinviato sull’articolo 18. È l’orientamento del governo: prima l’approvazione della legge delega con l’indicazione di alcuni criteri generali per rivedere le tutele dello Statuto dei lavoratori; poi, con i decreti delegati, la riscrittura delle regole sui licenziamenti. Nel merito, cioè sul come, deciderà il governo.
Niente negoziati del governo con la maggioranza, niente chiarimenti del governo con le varie anime del Pd. E conferma del cronoprogramma che prevede l’approvazione della delega da parte del Parlamento tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, e il successivo varo dei decreti da parte dell’esecutivo entro la fine dell’anno.
In questo modo il premier Matteo Renzi insieme al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ritengono di disinnescare “la bomba” e nello stesso tempo di mantenere inalterate le possibilità di cambiare l’articolo 18, come ci chiedono di fatto tutte le istituzioni europee (la Bce lo fece addirittura nella famosa lettera dell’agosto 2011).
In più — è il ragionamento — portare a casa tutta la delega sul mercato del lavoro (il cosiddetto Jobs Act che riforma gli ammortizzatori sociali, i centri per l’impiego ed estende i diritti di maternità) significa potere affrontare il tema dell’articolo 18, fortemente condizionato da fattori ideologici da tutte le parti, in un contesto assai diverso. Insomma questo governo non ha alcuna intenzione di infilarsi ora in quella stessa battaglia che nel passato ha lasciato macerie su entrambi i fronti e soprattutto ha condotto a soluzioni pasticciate, basti pensare all’articolo 8 della “legge Sacconi” e poi alla riforma Fornero.
Lo farà semmai dopo, quando potrà dimostrare, norme alla mano, che l’articolo 18 è diventato marginale in un contesto legislativo orientato alla promozione attiva dell’occupazione, perché questo è il cuore del Jobs Act.
Una strategia che certo rischia di trovarsi in difficoltà di fronte alle previsioni largamente condivise (sono di ieri quelle pessime dell’Ocse) che posticipano ancora la ripresa dell’economia. Questo è forse il punto di maggiore fragilità dell’impostazione del governo e ne hanno assoluta consapevolezza a Palazzo Chigi come a Via Veneto, sede del Lavoro.
Presa la decisione, tuttavia, l’esecutivo dovrà ora tradurla in norme nella legge delega su cui da oggi riprende la discussione nella Commissione Lavoro del Senato. Quasi sicuramente sarà necessario un emendamento (dovrebbe arrivare domani) nonostante ci sia all’interno del governo chi pensa che l’ultima exit strategy si possa già adottare con l’attuale formulazione dell’articolo 4 della delega, quello che prevede l’introduzione del contratto di inserimento a tutele crescenti.
Perché le tutele possono essere crescenti e condurre progressivamente, dopo tre anni o più dall’assunzione, all’applicazione dell’articolo 18 (compreso il diritto di reintegro nei casi ancora previsti) oppure essere crescenti in termini di indennizzo monetario (aumentano in relazione all’anzianità di servizio del lavoratore interessato) escludendo l’istituto del reintegro nel posto di lavoro se non nel solo caso di licenziamento discriminatorio.
Renzi e Poletti vogliono tenersi campo libero e decidere sulla base di una delega sufficientemente ampia che proprio per sua natura non dovrà entrare nel dettaglio. Eviteranno così di accontentare l’Ncd di Angelino Alfano che propone (l’ha fatto anche ieri) la totale riscrittura dello Statuto del 1970 e di attribuire alla minoranza del Pd, assai forte nella Commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano, un vero potere di veto. Tanto che pure ieri l’ex ministro del Lavoro ed ex sindacalista della Cgil è tornato a chiedere «un compromesso sui contenuti, sul percorso e sui tempi di conclusione».
SUSANNA CAMUSSO GIULIANO POLETTI
Tutte cose che Renzi non intende fare. E una volta approvata la delega, sarà complicato per i parlamentari del Pd, poter dire che non si fidano della soluzione che individuerà il presidente del Consiglio il quale è anche il segretario del partito. Un modo per disinnescare l’ordigno dell’articolo 18 ma anche per azzerare l’eventuale potere di interdizione della minoranza. Ed è significativo registrare la dichiarazione di ieri di Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio di Montecitorio: «L’articolo 18 è un feticcio, in Italia di fatto non esiste più e va superato ».
Continueranno a fare da spettatori i sindacati. Ieri la Cgil ha attaccato Alfano («il problema non è agevolare i licenziamenti ma estendere le tutele») e il leader della Fiom Maurizio Landini ha definito «una follia» l’eventuale completa cancellazione dell’articolo 18. «Così — ha aggiunto — Renzi continua il lavoro sporco dei precedenti governi ».
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