DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Tommaso Labate per corriere.it - Estratti
«Se mi devono condannare alla galera, mettetemi qua», disse Matteo Salvini quattro anni fa, all’alba dell’inchiesta Open Arms, filmandosi con lo smartphone tra centinaia di salumi appesi; trattavasi di coppa, come precisò specificando «non so voi ma io adoro la coppa».
Un modo come un altro per liberarsi da quella fama di divoratore di surgelati che lui stesso aveva alimentato all’apice della sua ascesa, nel settembre del 2018, quando aveva pubblicato la foto di un invitantissimo piatto di tagliatelle ai funghi accompagnata però da quella didascalia dal chiaro riferimento commerciale («Quattro salti in padella… Mi arrangio!») che aveva fatto impazzire i fanatici dello slow food.
Tutto questo perché, come ha dimostrato lo scatto della pasta al ragù consumato da Pier Luigi Bersani l’altra sera in Umbria insieme ai militanti del Pd locale e soprattutto il commento ironico rivolto dal diretto interessato a Giorgia Meloni («Come sempre, caviale»), dalla Seconda Repubblica in poi il cibo è diventato uno strumento di lotta politica.
«Difendiamo i lavoratori meglio della sinistra al caviale», aveva detto giorni fa la presidente del Consiglio, che spesso rimarca come un successo del suo governo «l’aver lasciato fuori dai confini nazionali i cibi sintetici»; un siluro — ipsa dixit — a quella sinistra «che diceva che non si doveva fare la pubblicità alla carne rossa, ai salumi e al vino perché fanno male e perché è meglio la farina di grillo».
Tolte tutte le volte che un ingrediente o una pietanza hanno scandito tempi e modi di trame politiche ordite al riparo da sguardi indiscreti — il pane in cassetta con le sardine di casa Bossi, la crostata di casa Letta, le spigole, gli arancini, la pizza bianca associati ad altrettanti «patti» per fare e disfare maggioranze, governi, riforme istituzionali o anche semplicemente elettorali — il legame tra cibo e politica è finito triturato dalla massima «dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei».
Emanuele Macaluso, cervello finissimo della sinistra italiana, per esempio smontava e rimontava l’assunto, convinto che il punto non fosse tanto il «che cosa» quanto il «dove». «Non si mangia mai dove si dorme e non si beve il caffè dove si mangia», usava sottolineare rimarcando come a suo dire tutto acquisiva una sua armonia, a patto che il caffè si prendesse solo al bar e il ristorante da scegliere non fosse mai quello di un albergo.
(...)
In cucina si sono consumati parecchi derby a sinistra. «Per anni ho tirato la carretta, ho mangiato pane e cicoria», spiegò Francesco Rutelli nel celeberrimo discorso contro la lista unica ulivista che accese il confronto tra lui e Romano Prodi. Per un periodo non si parlò d’altro. Tanto che nelle settimane successive, ovunque andasse, Meeting di Cl a Rimini compreso, l’ex sindaco di Roma si trovò di fronte chef (o sedicenti tali) che combinavano le due cose, pane e cicoria, sempre con una variante nuova. Di Massimo D’Alema, che col famoso risotto cucinato in collegamento con Bruno Vespa aveva sperimentato la via socialista al soffritto, il suo chef del cuore Gianfranco Vissani disse «che lui sì che sa mangiare, Renzi invece no».
Il riferimento renziano in cucina era diventato Massimo Bottura, dell’Osteria Francescana di Modena, a cui qualcuno aveva appiccicato la dichiarazione — poi smentita — che avrebbe lasciato l’Italia nel caso in cui al referendum voluto dall’allora presidente del Consiglio avesse vinto il No. Bottura poi è rimasto. All’ultimo G7 pugliese, contattato dal ministro Francesco Lollobrigida, ha cucinato per tutti.
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