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Tommaso Labate per "Pubblico"
Che sia una giornata destinata a cambiare la geografia del centrosinistra lo si capisce alle cinque del pomeriggio. Quando, nel Transatlantico di Montecitorio, si vedono gesti e si sentono frasi che soltanto una settimana fa sarebbero state archiviate alla voce «fantascienza». Beppe Fioroni evita ogni eufemismo e va dritto al punto: «Adesso D'Alema farà di tutto per accoltellare Bersani».
Pasqualino Laurito, classe â28, penna storica del giornalismo comunista, uno che considera «Massimo come un figlio», ha appena finito di vergare la Velina Rossa in cui dà a Bersani del «Ponzio Pilato». Ma non gli basta: «Questo segretario la pagherà cara», scandisce. E poi aggiunge che «se questo partito è così, io grido "viva Berlusconi"», che detto da uno che ha fatto dell'antifascismo e del Pci-Pds-Ds una ragione di vita non è frase da poco.
Il 16 ottobre 2012, ieri, è il giorno che forse segnerà l'inizio della fine della carriera da parlamentare di Massimo D'Alema. Forse. Di certo è il giorno in cui Pier Luigi Bersani manda un avviso di sfratto al presidente del Copasir. E apre contro di lui una sfida destinata a lasciare il segno, in un modo o nell'altro, nella corsa delle primarie.
La frase che scatena il terremoto fila via liscia durante un videoforum del segretario con il sito internet di Repubblica. «Non chiedo né a D'Alema né a nessuno di ricandidarsi perché non nomino io i deputati». Al di là della formula, apparentemente prudente, il messaggio è chiaro. Che più chiaro non si può. All'avviso che lunedì il presidente del Copasir aveva spedito da Napoli - «Mi candido solo se lo chiede il Pd» - il leader del Pd risponde con un niet.
Durante la video intervista con Repubblica.it Bersani aggiungerà altre cose. Dirà che «quelli da "rottamare" li conosco uno per uno». Spiegherà che «non c'era bisogno di Renzi per fare questa riflessione». Sottolineerà che «è tutta gente che sa benissimo che si può essere protagonisti senza essere parlamentari». Ma il messaggio che conta è quell'altro. Il «no» a D'Alema.
All'ora di pranzo, dentro i confini del Pd tira un'aria da guerra atomica. I telefonini dei più stretti collaboratori di Bersani sono tutti occupati. E più d'un segretario regionale è costretto a passare dal centralino del partito o, in subordine, da quello del comitato delle primarie. La domanda, da Milano a Palermo, è una sola: «Che cosa sta succedendo?».
La guerra, sta succedendo. Enrico Letta, da tempo in rotta con D'Alema, coglie la palla al balzo. «Mi riconosco in quel che ha detto Bersani», dice il vicesegretario mentre il resto della nomenklatura trattiene il fiato. Non il presidente del Copasir che, a metà pomeriggio, chiama i giornalisti delle agenzie (quasi un inedito, per lui) e detta la controffensiva: «Non mi ero rivolto a Bersani ma al partito». Perché, aggiunge, «non decide Bersani ma il partito».
à una maschera di rabbia, D'Alema. Uno scherzo del destino lo colloca, in questo 16 ottobre 2012, alla presentazione di un libro di Ciriaco De Mita. Al vecchio leader dc era capitata una cosa simile nel 1996. Cercava una ricandidatura ma, incrociandolo al Bar Mexico di Atripalda, provincia di Avellino, Romano Prodi s'era limitato a rispondergli con un freddo saluto e un caloroso avviso di sfratto. E «l'intellettuale della Magna Grecia», come lo chiamava l'Avvocato Agnelli, s'era vendicato, presentandosi da solo nel collegio uninominale e guadagnandosi l'ennesimo posto al sole di Montecitorio.
D'Alema, invece, ha provato ad anticipare il gioco di Bersani con il «manifesto dei seicento uomini del Sud» pubblicato lunedì dall'Unità . L'iniziativa dei dalemiani arriva sul tavolo del segretario con tre giorni d'anticipo. «Che cos'è? Un appello della società civile per Massimo?», chiede ai suoi un Bersani tra il sarcastico e l'irritato. La risposta che darà a se stesso, evitando di parlarne in pubblico, è un'altra: «Questo non è un appello. Questa è una minaccia». «Pier Luigi», insomma, interpreta la mossa di «Massimo» come una specie di avvertimento. Della serie, "ricordati che se sei segretario è grazie a me e al Sud che ti ha sostenuto".
à in quel momento che il corso della storia prende un'altra strada. Sabato mattina Pubblico anticipa la notizia delle firme dalemiane. Domenica pomeriggio Walter Veltroni, con un colpo di teatro, annuncia il suo passo indietro. Lunedì D'Alema, da Napoli, alza la posta. E ieri Bersani, come gli riconosce anche il capo del comitato renziano Roberto Reggi, veste i panni del «rottamatore». Si chiude una storia durata decenni. Se ne apre un'altra, dai contorni tutt'altro che definiti.
Impossibile scambiarla per una guerra improvvisa. Perché, di fatto, i rapporti tra D'Alema e Bersani si incrinano nel 2007. «Pier Luigi», che aveva avuto la garanzia di essere sostenuto nella corsa alla segreteria del nascituro Pd, viene sorpreso dal fatto che «Massimo» sia l'uomo che, insieme a Franco Marini, decide di sostenere Veltroni. Minaccia di correre lo stesso alle primarie ma si arrende prima di cominciare.
«Cosa fatta capo ha», disse la sera della resa. Due anni dopo, e siamo al 2009, sembra di assistere al remake di quel film. Mentre «Pier Luigi» è in corsa per la guida del partito, «Massimo» prova in ogni modo a rinviare il congresso di un anno. «Perché rischi di spaccare il Pd», gli disse. La risposta di Bersani, che poi vinse le primarie contro Franceschini, fu la stessa che gli ha dato ieri. Di due lettere. «No». A sera gira voce di una telefonata tra i due. E ci sono gli ambasciatori di pace in azione. Ma, anche stavolta, «cosa fatta capo ha».
BERSANI E DALEMA SBIRCIATINA ALLUNITA MASSIMO DALEMA PIERLUIGI BERSANI WALTER VELTRONI WALTER VELTRONI E MASSIMO DALEMA jpegGIUSEPPE FIORONI DARIO FRANCESCHINI
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