DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Laura Cesaretti per ilgiornale.it
Enrico Letta è pronto a scendere in campo da salvatore della patria Pd, ma si dà 48 ore di tempo per dire sì o no.
«Sono grato per la quantità di messaggi di incoraggiamento che sto ricevendo, ho il Pd nel cuore e queste sollecitazioni toccano le corde più profonde», dice l'ex premier da Parigi, che però davanti alla «accelerazione inaspettata» chiede tempo per decidere. Due giorni. Che serviranno soprattutto a testare le risposte interne e capire quanto ampia e solida sarà la maggioranza pronta a sostenerlo domenica.
Perché sia Letta che il suo kingmaker Dario Franceschini conoscono i loro polli e pensano che il nuovo segretario debba rappresentare una svolta, sia pur soft, rispetto al recente passato, ricollocando saldamente il partito a fianco del governo Draghi, arginando i cupio dissolvi di chi tenta di fargli la fronda e archiviando la triste parentesi delle nostalgie contiane. Ma offrendo al contempo alla gestione precedente una via d'uscita morbida dal cul de sac in cui si erano infilati, senza la dolorosa necessità dell'autocritica, nonchè la garanzia di un implacabile muro anti-renziano.
Questo però vuol dire che Letta non può essere il segretario della medesima maggioranza di prima, e che il sostegno, se non proprio unanime, deve essere più largo possibile. Domenica, in assemblea, non si può andare a una conta tra correnti. Ma qui - nonostante tutti dicano che Letta è una personalità indiscutibilmente autorevole - iniziano i problemi. Quello più apparente è la resistenza della minoranza di Guerini e Lotti, che non dice «no» ma, come spiega il capogruppo al Senato Marcucci, dice che «al Pd serve un segretario ma anche un congresso, che dopo le amministrative risolva le questioni che ci portiamo dietro», e chiarisca la linea. Stesso concetto anche dai Giovani Turchi, che cercano di far venire allo scoperto Letta: «Bisogna aprire una nuova fase superando la subalternità a M5s, linea archiviata dal governo Draghi».
Ma le vere resistenze a Letta arrivano dalla sinistra: l'area Orlando, che vedrebbe sfumare la possibilità di candidarsi segretario ad un congresso ravvicinato, l'area zingarettiana che non vuol perdere il volante del partito. E più in generale gli ex Pci, per i quali si rinnova un trauma simile a quello del 2013 con l'elezione di Renzi post schianto di Bersani: dover cedere le redini agli ex Ppi dopo aver portato il partito contro un muro. In questo caso, poi, la beffa della storia sarebbe completa: a prendere in mano il Pd dagli ex Pci sarebbero i due ex vice-segretari di Franco Marini alla guida del Ppi: Letta e Franceschini.
Ecco quindi che dalla sinistra interna parte un coro, volto a dire che Letta «garantisce la continuità della linea», come dice Zingaretti ai suoi, che il congresso sarà più tardi possibile, che Letta avrebbe il timbro della maggioranza uscente e che nelle future liste elettorali la minoranza verrebbe falcidiata. Qualche zingarettiano minaccia addirittura una fase di anarchia, con la presidente Cuppi (scelta dall'ex segretario) a fare la reggente in attesa del congresso. Il tutto per tentare di far saltare i nervi a Base riformista e spingerla a sbarrare la strada alla candidatura Letta. «Ma Guerini è politicamente troppo intelligente per cascarci», osserva un franceschiniano. La matassa però è ancora assai intricata, e solo venerdì mattina Letta scioglierà la riserva.
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