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di Valeria Pacelli per “Il Fatto Quotidiano”
Augusto Minzolini utilizzò la carta aziendale per spese di natura esclusivamente personale”. Ne sono convinti i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Roma che lo scorso 27 ottobre hanno ribaltato la sentenza di assoluzione in primo grado per il senatore di Forza Italia, condannandolo a due anni e sei mesi di reclusione per peculato continuato.
Il 10 dicembre sono state depositate le motivazioni della sentenza che rovescia la pronuncia primo grado secondo la quale l’ex direttore del Tg1 aveva strisciato per 15 mesi la carta di credito aziendale della Rai, spendendo così oltre 65 mila euro di soldi pubblici, solo perché non erano chiare le modalità di utilizzo della stessa. Secondo i giudici della Corte di appello, invece, “Minzolini utilizzò la carta quasi quotidianamente per pasti senza mai documentare le ragioni di rappresentanza, né i beneficiari della spesa e senza chiedere la preventiva autorizzazione al direttore generale”.
La carta aziendale è stata utilizzata anche il giorno del suo compleanno: “Significativa – scrivono i giudici di secondo grado la circostanza di non ricordare nessuna delle persone che aveva beneficiato della spesa. Infatti è del tutto incredibile che, all’epoca della richiesta di fornire giustificazioni, l’imputato non abbia ricordato o voluto indicare la persona con la quale aveva pasteggiato quantomeno nei giorni del 3 agosto 2009 e 3 agosto 2010, date del suo compleanno”. Durante il processo, Minzolini si giustificò dicendo che si trattava solo di pranzi di lavoro e quindi, essendo fonti, non poteva rivelarne l’identità. Anche per le spese in Marocco, secondo la sua ricostruzione, “incontrò un agente dei servizi segreti che doveva fornirmi informazioni sulle infiltrazioni jihadiste”.
Diverso il comportamento quando anticipava di tasca propria per poi chiedere “il rimborso delle spese (per un totale di 18 mila euro)”: in questi casi indicava “il nome del beneficiario”, circostanza che “induce a ritenere che in tali casi si sia trattato di spese di rappresentanza”.
Inoltre secondo la Corte di appello non regge neanche la tesi secondo la quale la carta di credito sarebbe stata rilasciata al senatore per compensazione “in quanto – come ha dichiarato – avevo cessato la collaborazione con Panorama”.
PER I GIUDICI “non si comprende per quale motivo avrebbe dovuto avere una sorta di compenso aggiuntivo” dato che in Rai il suo stipendio era di 578 mila euro l’anno, mentre il compenso che percepiva in precedenza – come dichiarato da lui stesso – tra il quotidiano La Stampa e la collaborazione con Panorama ammontava a 200 mila euro l’anno. E ancora: i giudici della Corte ritengono anche che “la restituzione della somma” alla tv di Stato è solo il “tentativo di far credere la sua buona fede”.
Quindi non hanno dubbi: “l’imputato conosceva perfettamente il fine della carta (...) soprattutto per aver sottoscritto il regolamento di utilizzo e per essere a perfetta conoscenza delle circolari all’epoca vigenti e che ne disciplinavano l’uso”. Così, “deve ritenersi al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato avesse la piena consapevolezza del fatto che, utilizzando la carta della Rai a fini personale, si appropriava di denaro pubblico”.
Sentito dal Fatto Augusto Minzolini spiega che “per quanto riguarda il giorno del mio compleanno, sicuramente lavoravo e a distanza di un anno non potevo ricordare con chi ero. Così, anche per gli altri casi. Poi c’è una sentenza di primo grado, una decisione dell’Ordine dei giornalisti e per di più il giudice del lavoro dice addirittura che la Rai deve ridarmi i soldi. In quei 15 mesi nessuno mi ha detto che stavo sbagliando. È allucinante”. E infine Minzolini azzarda: “Una sentenza a due anni e sei mesi sembra fatta solo per rendermi ineleggibile. La denuncia non l’ha fatta la Rai, ma l’Idv”. E già annuncia il ricorso in Cassazione.
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