DAGOREPORT - PER RISOLVERE LA FACCENDA ALMASRI ERA SUFFICIENTE METTERE SUBITO IL SEGRETO DI STATO E…
ALMENO
Jena per “la Stampa” - Non vedo l’ora che Renzi faccia il suo nuovo partito, così almeno saprò chi non votare.
DUE LITIGANTI E IL TERZO NON GODE
Federico Geremicca per “la Stampa”
C' è un vecchio adagio, notissimo e applicabile in diverse situazioni della vita, secondo il quale "tra i due litiganti il terzo gode". Bene, nel suo lungo e sconcertante declino il Partito democratico sta riuscendo a frantumare anche antichi e radicatissimi luoghi comuni. Come quello appena citato: visto che se due litigano (in questo caso Lega e M5S) puoi star certo che a prendere botte sarà soprattutto il terzo, se il terzo è il Pd.
NICOLA ZINGARETTI E MATTEO RENZI
Sarebbe forse bastato aspettare 48 ore, dare cioè tempo agli stracci gialloverdi di alzarsi bene in volo, e limitarsi a mangiare pop corn per ancora un paio di giorni (dopo averlo fatto per oltre un anno). Invece, iniziative politicamente incomprensibili hanno prodotto la situazione che è oggi sotto gli occhi di tutti: un partito dove ognuno parla per sé, dominato da logiche e preoccupazioni personali o di gruppo, un collettivo non più in grado - insomma - di far fronte alle proprie responsabilità in passaggi delicati come l' attuale e assai poco affidabile, dunque, come fulcro di una possibile alternativa.
Non è una situazione nata dal nulla. Esistono precise e graduabili responsabilità: quella del segretario, innanzitutto, che in questi mesi non è riuscito a ridare un profilo convincente al suo partito e ha sperato che bastasse il tempo a risolvere problemi che andavano invece affrontati di petto.
E quella di Matteo Renzi che, incurante perfino del ridicolo, si è proposto come uomo del dialogo tra il Pd e Di Maio, solo per provare a recuperare un ruolo e salvare un po' di seggi per la sua corrente. E sia che il Pd si accodi alla sua proposta, sia che non lo faccia, lascia intendere (e certamente non smentisce) che la sua avventura nel partito è ormai finita.
L' ex presidente del Consiglio, evidentemente, non considerava concluso il lavoro. Infatti, dopo aver portato nel marzo 2018 il Pd al suo minimo storico e aver perso durante gli anni del suo doppio incarico tutto quel che si poteva perdere (da Roma a Torino a Genova: e non è che dopo di lui sia andata meglio) restava da completare l' opera, ed ecco dunque la scissione: minacciata non con l' ambizione alta di rifondare il centrosinistra ma con l' obiettivo di metter su un qualche esecutivo (il governo dei disperati, lo ha definito Salvini) nientedimeno che con Grillo e l' odiata Casaleggio&associati.
Se le cose andassero così (e Renzi e i suoi non negano che possano andare così) il "rottamatore" potrebbe davvero alzare il cartello "fine dei lavori": al momento, infatti, il Pd è ridotto a un mucchio di macerie difficili da rimettere assieme. Perfino in queste ore convulse non si capisce chi è che decide - se Zingaretti o Renzi, insomma - e i possibili interlocutori addirittura non sanno con chi parlare.
È una situazione che non può durare a lungo, anche perché rischia di mettere in imbarazzo e in difficoltà lo stesso Presidente della Repubblica: quando avvierà le consultazioni, per esempio, a Mattarella basterà convocare Zingaretti o dovrà poi, magari nottetempo, sentire anche Matteo Renzi?
Sullo sfondo, attonito, resta quello che un tempo veniva chiamato il "popolo della sinistra". Osserva il disastro e si interroga.
Si chiede perfino, a questo punto, se alle prossime elezioni il Pd esisterà ancora o se sarà cominciata l' ennesima ricostruzione, nomi nuovi, partiti nuovi e programmi bellissimi. Un incubo, e nemmeno così inedito.
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