MAI DIRE PD! - I ROTTAMATI PIDDINI NON ASPETTANO NEANCHE IL DOPO EUROPEE PER APRIRE LE OSTILITÀ CONTRO RENZACCIO, MA L’ASSEMBLEA ROMANA DIVENTA UN’ADUNATA DI REDUCI IN CERCA DI POLTRONE (DENTRO AL PARTITO)

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

1. IL RITORNO DELLA DOPPIA SINISTRA
Federico Geremicca per "La Stampa"


A Torino, Renzi, ad aprire la campagna elettorale europea con le sue cinque capolista; a Roma, gli ultimi due segretari, Bersani ed Epifani (più D'Alema e altri dirigenti di prima fila) che riaprono le ostilità nei confronti del premier-segretario. Facile parlare dell'esistenza di «due Pd»: e non c'è nulla di scandaloso, in democrazia, che una maggioranza debba fare i conti con una minoranza che si oppone.

Più sorprendenti, invece - e per certi versi preoccupanti - tempi e contenuti del riesplodere della polemica.
Il nuovo scontro, che naturalmente ha motivazioni «ufficiose» assai concrete - e che riguardano il potere che Matteo Renzi sta via via accumulando fuori e dentro il Pd - ieri si è ufficialmente giocato sulla dicotomia destra/sinistra, categorie politiche che vanno perdendo - e ce ne si può perfino rammaricare - senso e importanza per un numero crescente di cittadini.

«Le norme sbagliate della destra non diventano giuste se a proporle siamo noi», ha accusato da Roma Cuperlo; «La sinistra che non cambia, diventa destra», ha replicato Renzi da Torino.
E a metterla così, è chiaro che si tratta di una discussione che difficilmente farà fare un solo passo avanti tanto al Pd quanto al Paese: che di rimettersi in moto, invece, ha un disperato bisogno.

Ma tale discussione, per quanto ammantata da richiami ideologici, in realtà conferma il perdurare (e anzi il crescere) di un vero e proprio rigetto del fenomeno-Renzi da parte dei settori più tradizionali - appunto - della sinistra italiana.

Infatti, non sono stati solo i suoi amici di partito, ieri, a mettere nel mirino il presidente del Consiglio, sul cui capo è caduto di tutto: dalle ironie di Susanna Camusso («Ci sono giovani che rappresentano abbastanza poco, anche se sono in posti chiave») alla definitiva scomunica comminata da Stefano Rodotà: «Il nostro sistema politico è segnato da tre populismi diversi tra loro: quello di Berlusconi, quello di Grillo e il nuovo populismo di Renzi».

Il segretario-premier, insomma, sembra esser considerato sempre più un «corpo estraneo» rispetto alle tradizioni (recenti) del Pd, e più ancora a quelle dei partiti che lo hanno incubato: il suo modo di fare, una evidente insofferenza al confronto ed una sorta di indifferenza rispetto a quanto è stato fino ad oggi solitamente considerato «di sinistra» (e, al contrario, «di destra») non vanno giù, e questo è comprensibile.

Ciò che appare meno condivisibile, però, è la contestazione di concreti elementi di verità, la cui sottovalutazione si fatica a intendere, se non alla luce - appunto - della forte polemica politica in corso.
In questo senso si può citare l'intervento svolto ieri da Massimo D'Alema - solitamente freddo nell'analisi - tornato a parlare di cose italiane all'assemblea della minoranza democratica.

«Il Pd - ha spiegato - vive un processo di impoverimento che può prendere una piega drammatica. Questo partito non lo possiamo lasciar morire, lo dobbiamo far funzionare noi, dobbiamo aprire i circoli e fare il tesseramento...». Si tratta di una fotografia catastrofica dello stato di salute del Pd, accompagnata da un richiamo all'antico, alla tradizione.

Ma è una fotografia che non corrisponde alla realtà delle cose, se è vero che ogni sondaggio - in vista delle europee - attribuisce al Partito di D'Alema percentuali superiori a ogni più recente tornata elettorale, e vicine ai consensi-record raccolti da Veltroni nelle elezioni politiche del 2008.

Il punto, dunque, sarebbe forse interrogarsi sul come e sul perché è stato ed è possibile che un «giovane populista» (per mettere assieme le accuse di Epifani e Rodotà) abbia nel giro di due mesi - dicembre 2013, febbraio 2014 - conquistato il più importante partito italiano, prima, e addirittura la guida del governo, poi.

C'è qualcuno che ha sbagliato qualcosa? C'è qualcun altro che non ha inteso l'altissimo livello di insofferenza diffuso tra i cittadini-elettori del Paese?
La riflessione della minoranza Pd dovrebbe dunque partire da qui, piuttosto che adagiarsi su schemi di comodo.

E dovrebbe esser avviata - per il Bene Superiore del Partito, che pure viene così invocato - forse non giusto a ridosso di una importante (forse decisiva) sfida elettorale come quella di maggio. A meno che, naturalmente, non si intenda con tali polemiche segnalare a iscritti e simpatizzanti che nulla è cambiato, e che il Pd è pronto - appena ne avrà l'occasione - a divorare il suo quinto segretario in sei anni. Faccenda con la quale, lo si riconoscerà, la dicotomia destra/sinistra non c'entra un bel niente...

2. L'ASSEMBLEA DEI REDUCI PD
Mattia Feltri per "La Stampa"


Dove andare non è soltanto un problema politico. Livia Turco per esempio va nella direzione opposta, nel senso che si lascia alle spalle il teatro Ghione, dove si riunisce la minoranza Pd. Si è persa? Si è scocciata? Sono entrambe posizioni ideologicamente comprensibili se un uomo delizioso come Staino, storico vignettista dell'Unità, è alla caparbia ricerca della terza via: «Sono qui perché Cuperlo mi ha precettato sul piano dell'affetto».

Però, dice, non mi piace né il nuovismo renziano né questo reducismo. La piantina politico-sentimentale del Pd è fitta di alternative: Francesco Boccia è qui come invitato ma non parla perché deve andare in Puglia; Goffredo Bettini è qui ma non aderisce, ha semplicemente delle cose da dire.

In ossequio alla cronaca servono dettagli: ore 10,30, Roma, zona San Pietro, teatro Ghione, in perfetta coincidenza con l'apertura torinese della campagna elettorale renziana, Gianni Cuperlo, Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani, più Stefano Fassina, Barbara Pollastrini e un paio di altre centinaia di persone si riuniscono per indicare la strada giusta. E quindi: la sovrapposizione degli eventi non ha intenzioni ostili, «siamo idealmente a Torino», dicono tutti e lo dice per primo Roberto Gualtieri candidato alle Europee.

Casualità. Anzi, l'iniziativa di Cuperlo era stata organizzata prima e, al limite, come dice D'Alema, doveva essere Matteo Renzi a cambiare data. Però non perdiamo il filo: siamo qui ma siamo anche a Torino. E, osserva Cuperlo appena salito sul palco, siamo qui ma non stiamo celebrando la coda del congresso.

Anzi, siamo renziani ma non renziani nel modo in cui intende Renzi. Cioè: «Aiuteremo le riforme, sono decisive per il Paese, ma dobbiamo farlo rivendicando principi e merito delle scelte». Durante tutto questo tempo, D'Alema meriterebbe una telecamera dedicata: strabuzza gli occhi, aggrotta la fronte, gonfia le guance, si infila una penna in bocca che stringe fra i denti come il coltello di Tarzan.

Non che disapprovi, ma chissà se si riconosce nella stravagante parabola cuperliana dell'aquila dal becco e dagli artigli deboli che, dunque, si sbriciola il becco medesimo contro una roccia affinché ricresca più forte e, quando sarà ricresciuto, si strapperà gli artigli di modo che anche quelli tornino robusti e, insomma, l'aquila sarebbero proprio Cuperlo e gli altri. Vabbè.

Però la poetica dell'ex sfidante di Renzi - secondo cui «bisogna smettere di essere minoranza e diventare pensiero» - trova compimento nella splendida concretezza di D'Alema: «Forse la minoranza non deve tanto aspirare a diventare pensiero quanto maggioranza, diciamo». Puro buon senso, ma come? Qui la rotta appare già più incerta perché - confermato che anche a D'Alema le riforme garbano, ma non gli garbano a questa maniera, né quella elettorale né quella del Senato - l'ex presidente del Consiglio esprime il suo sdegno a proposito del «processo di destrutturazione e impoverimento del partito».

Non fanno più nemmeno il tesseramento, dice. E allora facciamolo noi il tesseramento, aggiunge. E avrà senz'altro ragione, D'Alema, ma non saremmo sicurissimi che si tratti di temi vincenti con un avversario come Renzi.

E nemmeno che lo sia l'adorabile prosa della sindacalista Carla Cantone, incaricata di ricordare i bei tempi della concertazione e dei partiti collettivi anziché personali. E allora dove si deve andare? Perché degli ottanta euro sono contenti, ma non è tutto lì. Perché la riduzione degli stipendi dei manager è ineccepibile, ma serve ben altro.

Perché, come dice il più applaudito di tutti, Pierluigi Bersani, anche la politica deve «stringere la cinghia ma non è accettabile cancellare il finanziamento pubblico alle attività politiche». Dove andare se alla fine rimane un senso di vaghezza, come davanti ai cartelli che indicano "tutte le direzioni"?

 

IL SALUTO TRA RENZI E BERSANI RENZI A BERSAGLIO MOBILE GUGLIEMO EPIFANI CON BERSANI ALLE SPALLE FOTO LAPRESSERENZI-DALEMAGianni Cuperlo LIGRESTI E DALEMA DALEMA E RENZI MASSIMO DALEMA CONTADINO