DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Massimo Gaggi per “Il Corriere della Sera”
«Welcome home», bentornato a casa: le parole con le quali è stato accolto ieri sera al suo arrivo a Nairobi, sono le stesse che un Obama assai più giovane, alla sua prima visita in Kenya, si sentì rivolgere 28 anni fa da zia e sorellastra venute a prenderlo in aeroporto.
Allora Barack cercava la sua identità sulle orme del padre scomparso. Cercava di colmare il vuoto nella sua anima, come ha raccontato in «Dreams From my Father», il suo primo libro autobiografico. Stavolta viene per promuovere la cooperazione economica tra Usa e Africa e rafforzare la collaborazione antiterrorismo coi Paesi della regione, ma anche questo viaggio ha un significato personale profondo: quasi la ricerca di una redenzione.
Tutti i cittadini americani, figli di un Paese nato dall’immigrazione, prima o poi vanno alla ricerca delle radici. L’hanno sempre fatto anche i presidenti, ma Obama ha lasciato che passassero quasi sette anni alla Casa Bianca prima di tornare nella terra del padre. E ha rinunciato (per motivi di sicurezza) a visitare Kogelo, il villaggio a 310 chilometri da Nairobi nel quale Obama senior è nato ed è sepolto.
Lungamente attesa, la visita di un leader che qui tutti considerano «figlio dell’Africa» suscita un’enorme eccitazione. Brinda il ceto medio che ha creato in Kenya un’economia vibrante (crescita al 6% da diversi anni a questa parte) e spera nella spinta di Obama per dare un’ulteriore accelerazione allo sviluppo, ma è in festa anche la povera gente di Kibera, gigantesca «bidonville» con un milione di abitanti, dove molti artigiani si sono attrezzati con torchi rudimentali per stampare magliette vendute a 5 dollari.
La gioia non riesce, però, a scacciare l’amarezza per le promesse mancate né l’ansia per una missione irta di ostacoli, con un’evidente sproporzione tra le aspettative e i risultati che non potranno che essere limitati. Quando, nel settimo anno della sua presidenza, George Bush visitò l’Africa, fu accolto da trionfatore perché un presidente ormai impopolare anche in patria, oltre che in gran parte del mondo, per il suo unilateralismo e la guerra sbagliata contro l’Iraq, nel Continente Nero aveva colto risultati importanti, soprattutto grazie ai massicci investimenti fatti nel tentativo di debellare l’Aids.
Obama non solo non ha realizzato nulla di simile, ma per anni ha evitato il Kenya, un po’ per non prestare il fianco agli attacchi della destra che lo dipingeva come un africano estraneo alla cultura Usa, un po’ per non sporcarsi le mani coi regimi illiberali della regione. E anche la promessa di grossi investimenti per far arrivare ovunque l’energia elettrica è rimasta in gran parte sulla carta. Quanto alle questioni domestiche - la delusione dei suoi parenti per la mancata visita a Kogelo — Obama ha cercato di lenirla invitando a Nairobi nonna Sarah (il realtà una zia che fece da madre a Obama senior) e altri familiari.
Ma giornali e tv sono pieni di interviste di zii e fratellastri che proclamano a gran voce la loro delusione per la mancata tappa nella regione degli avi, mentre i tentativi di attirare l’attenzione del primo presidente afroamericano della storia Usa hanno spinto 18 studenti ad annunciare addirittura un suicidio collettivo se Obama non si recherà nel loro ateneo. E 31 ragazze della stessa accademia se la sono cavata con una promessa sfrontata ma meno drammatica: se lui non arriverà, loro faranno pipì sull’albero piantato da lui nove anni fa, quando Barack visitò il campus da senatore democratico.
Con le suggestioni gli imbarazzi. Obama ha dovuto affrontarli già ieri sera, quando ad attenderlo sotto l’Air Force One ha trovato il presidente Uhuru Kenyatta: un leader a lungo accusato di violazioni dei diritti umani e di violenze nei confronti delle minoranze etniche.
Obama alla fine ha deciso di dialogare anche con lui, nonostante Kenyatta sia, tra l’altro, il capo della tribù che a suo tempo emarginò il padre del presidente Usa, «colpevole» di appartenere a un altro gruppo etnico: fu quello l’inizio della fine per Obama senior che, privato del lavoro e isolato, scivolò nell’alcolismo e finì per perdersi. Fortuna che anche la famiglia ha preso in consegna Obama junior alla scaletta dell’aereo: a baciarlo la stessa sorellastra Auma che l’aveva accolto una vita fa. E alla cena di famiglia in albergo (35 convitati) il presidente sedeva accanto a Nonna Sarah, trionfante e assonnata, con una fascia dorata in testa. Welcome home, nipote Barack.
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