DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
Marcello Mancini per la Verità
Il discorso introduttivo volevano farlo fare a due ottantenni. «Così dimostreremo che non sono solo i giovani a chiedere il rinnovamento», pensavano Matteo Renzi e Pippo Civati. Insieme e convinti nel 2010. Salvo poi divorziare l' anno dopo, perché Civati si accorse subito che con Renzi accanto non ci sarebbe stato spazio per nessuno, né alla Leopolda né altrove, e che lui avrebbe sempre fatto solo di testa sua. Erano ragazzi, infatti all' interno della vecchia stazione granducale di Firenze, il clima era goliardico.
Sembrava un raduno di boy scout, o una discoteca con musica a palla e il disk jockey alla consolle. Trasgressiva anche nella scenografia, la prima Leopolda: un migliaio di seggiole, un grande palco, uno schermo e un microfono stile anni Sessanta. Si poteva parlare quattro minuti, non di più. Ritmi da talk show: ognuno diceva la sua. A chi ricordava le maestose tribune dei mitici congressi del Pci o della Dc, con gli interminabili discorsi «mai-un-sorriso» di Enrico Berlinguer, Achille Occhetto, Aldo Moro e Amintore Fanfani, a chi rimpiangeva le faraoniche guglie di Filippo Panseca per Bettino Craxi, la Leopolda rispondeva con un teatro d' essai che somigliava nei toni a uno show di Leonardo Pieraccioni. Lingua ufficiale: il fiorentino. Battute, risate, slogan, simboli.
Cominciò così, ma poi ci sarebbe stata l' evoluzione della specie rottamatoria. Da start up a industria di un nuovo modo di fare politica. Quello che molti italiani, forse, in quel momento cercavano. Tutto molto bello, entusiasmante e inedito. E tanta, tanta scena. Per dire: Renzi aveva fatto apparecchiare 100 tavoli e a ciascuno di questi aveva messo un politico a conversare con la gente comune su un tema, che poteva essere la giustizia, il lavoro, l' ambiente. Lui interveniva dal palco chiedendo: «Che si dice di Europa al tavolo 15?». Simbolismo vuoto, magari, ma all' epoca piacque.
Alla prima edizione era atteso il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ma non venne. Anzi, nello stesso giorno organizzò, a Roma, l' assemblea dei segretari di circolo, che ovviamente fu presa come un tentativo di boicottaggio, almeno mediatico. Anche perché a Firenze, bandiere del Pd non ce n' erano, il segretario avrebbe giocato fuori casa in tutti i sensi. Probabilmente fu un errore, un mancato riconoscimento. Vennero gli avventurosi che ci credevano: Matteo Richetti, Davide Faraone, Pietro Ichino, Roberto Giachetti, Ermete Realacci, Andrea Marcucci e, naturalmente, gli amici di sempre, il circolino fiorentino che sarebbe poi diventato il temuto e corteggiato Giglio magico.
LE SCARPE DI MARIA ELENA BOSCHI
Le intenzioni erano chiare già da uno striscione scritto con lo spray, che all' ingresso della stazione avvertiva: «Al passato grazie, al futuro sì», da una frase di Dag Hammarskjöld, premio Nobel per la pace. Di queste citazioni, la Leopolda è stata una fabbrica inesauribile: «E adesso il futuro» (2016); «Il futuro è solo l' inizio» (2014); «Diamo un nome al futuro» (2013).
Almeno nelle prime edizioni, l' appuntamento della Leopolda misurava il gradimento del capo verso alcuni componenti del Giglio magico: te ne accorgevi dal tempo di presenza sul palco e dal ruolo all' interno della macchina organizzativa della kermesse. Nella Leopolda del 2013, per esempio, Renzi decise di lanciare la rampante Maria Elena Boschi, a cui fu assegnato il compito di coordinare gli interventi. E siccome la Boschi non è una che passa inosservata (e infatti fu notata soprattutto per un paio di scarpe leopardate, che le fecero guadagnare l' appellativo di «giaguara») da perfetta sconosciuta divenne il volto della manifestazione e il petalo più appariscente e più potente del Giglio.
Oscurando quella che comunque resta la prima amazzone del renzismo, cioè Simona Bonafè, che sarebbe stata poi tagliata dagli incarichi principali di partito e di governo ed esiliata in Europa. La Leopolda come una specie di X Factor del circo renziano. Unico giudice, naturalmente, Matteo, che diamine. Protagonista alla ribalta e nel backstage, dove tutti vivono ai suoi piedi e aspettano un cenno anche per respirare.
Transitare da questa vecchia stazione dell' Ottocento ha significato, negli ultimi otto anni, strappare il biglietto per glorie e poltrone, incarichi politici e consigli di amministrazione. Illustri sconosciuti o aspiranti eccellenze, locali e nazionali, alcuni dei quali strada facendo si sono persi, un po' sinceramente delusi e un altro po' insoddisfatti per le grazie non ricevute.
I nomi sono noti. Giorgio Gori oggi è sindaco di Bergamo e candidato presidente della Lombardia; lo scrittore Alessandro Baricco, ispiratore letterario del movimento leopoldino; il «fenomeno» Oscar Farinetti, ristoratore ufficiale del mondo renziano; il regista Fausto Brizzi, oggi più noto per altre brutte storie; il fiorentino Guelfo Guelfi, che è diventato consigliere di amministrazione della Rai; il fondatore del fondo Algebris, Davide Serra, noto per aver finanziato la maggior parte delle campagne elettorali di Renzi.
Industriali e imprenditori di ogni tipo. Qualche precario ma nessuna traccia di disoccupati o, per esempio, risparmiatori traditi dalle banche (da Monte dei Paschi in giù). Credo che la Leopolda abbia sedotto e illuso molti, anche fra chi l' ha sempre vista da lontano. Era una risorsa, non so invece quanta credibilità possa avere questa edizione 2017, il cui titolo sembra una codifica tipografica: «L8-In/contro», in programma da venerdì 24 a domenica 26 novembre e promossa e animata da chi ora governa l' Italia e non ha più il comodo ruolo dello sfasciacarrozze.
Nel novembre 2010 Matteo Renzi annunciava: «La nostra scommessa è provare a cambiare non solo le facce di chi sta lì da 30 anni, ma anche le idee». Lì per lì sembrò un movimento con una spinta seduttiva straordinaria, lontano mille miglia dalle messe cantate dei partiti, dal linguaggio politichese, dalle mozioni che non portano a nulla. Innovativo, con questa forza rivoluzionaria che da quel giorno si chiamò «rottamatrice», perché in una intervista a Repubblica dell' agosto 2010, Renzi parlò di «rottamare senza incentivi» gran parte della classe dirigente del Pd.
Sette anni dopo, all' ottava edizione che comincerà venerdì prossimo, uno slogan annunciato è «poca politica e molte idee». Siamo allo stesso punto. La Leopolda si nutre di idee e di futuro. Parole. La sinistra è un cumulo di macerie, nel mezzo però ci sono stati mille giorni di governo, nei quali Renzi ha avuto il tempo di tradurre quelle meravigliose idee in fatti, quella voglia di spaccare il mondo in nuove regole di uno Stato democratico. Lui dice che s' è messo parecchio avanti, una parte del Paese sostiene il contrario, perché finché c' è da sfasciare è un conto, quando si tratta di costruire è tutta un' altra storia.
Cosa ne pensano veramente gli italiani lo sapremo fra pochi mesi, perché finora i cittadini, nonostante tappe amministrative e referendum, non si sono espressi mai compiutamente su Renzi e il renzismo. Per lo meno con numeri alla mano che non siano interpretabili, smentibili o tirati come un chewing gum dalla parte che fa più comodo. E a proposito di futuro, quello che indicavano con tanta enfasi gli slogan delle Leopolde di sette, sei, cinque anni fa, ecco: quel futuro ormai è oggi. Ma quanti di noi se ne sono davvero accorti?
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